Assenza ingiustificata e licenziamento per giusta causa

Tra gli obblighi di correttezza e diligenza del prestatore di lavoro rientra “anche quello di comunicare tempestivamente al datore di lavoro eventuali impedimenti nel regolare espletamento della prestazione che determinino la necessità di assentarsi, sicché il mancato rispetto di tale obbligo può giustificare il licenziamento, poiché la mancata comunicazione dell’assenza dal lavoro, anche se in astratto dovuta a motivi legittimi, è idonea ad arrecare alla controparte datoriale un pregiudizio organizzativo, derivante dal legittimo affidamento in ordine alla supposta effettiva ripresa della prestazione lavorativa”.

Questo, il principio ribadito dalla Corte di Cassazione (ord.) 22 maggio 2025, n. 13747 (conf. Cass. n. 10352/2014 e Cass. n. 10552/2013), la quale conferma la pronunzia della Corte territoriale secondo cui, a fronte della contestazione sia dell’assenza ingiustificata protrattasi per oltre tre giorni (“addebito già autonomamente sanzionato con il licenziamento dal CCNL”), come dell’omessa comunicazione delle assenze, “la protrazione dell’assenza ingiustificata per ben cinque giorni lavorativi, valutata unitamente alla violazione degli obblighi di comunicazione al datore di lavoro, determina una irreversibile lesione del vincolo fiduciario, non potendo il datore di lavoro fare affidamento sulla correttezza dei futuri adempimenti”. E ciò, stante l’irrilevanza dell’assenza di danni o disfunzioni dell’organizzazione aziendale derivati.

I giudici chiariscono altresì che sul datore di lavoro grava l’onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento (ex art. 5, L. n. 604/1966). Nel caso in cui la giusta causa sia costituita dalla assenza ingiustificata del lavoratore dal servizio egli può limitarsi a provare l’assenza nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare gli elementi che possono giustificare l’assenza medesima e in particolare la sua dipendenza da causa a lui non imputabile (v. Cass. n. 16597/2018; Cass. n. 12429/2018 e Cass. n. 2988/2011). Infatti, qualora detta assenza sia connessa ad uno stato di malattia,  “l’onere incombente sul prestatore di dimostrare la sussistenza di una causa di giustificazione, non può ritenersi assolto alla stregua della pura e semplice allegazione della circostanza suddetta, essendo egli gravato dall’onere di dimostrare la sussistenza della malattia” (cfr. Cass. n. 13352/1999 e Cass. n. 922/1996).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha ritenuto, provato che la ricorrente “si è assentata dal lavoro a partire da mercoledì 22 marzo 2023 e nulla ha comunicato all’azienda sino a mercoledì 29 marzo 2023” ed ha richiamato: a) l’art. 184 del CCNL, secondo cui, tranne che in caso di giustificato e comprovato impedimento, “il lavoratore ha l’obbligo di dare immediata notizia della propria malattia al datore di lavoro e di comunicare il numero di protocollo identificativo del certificato medico inviato dal proprio medico curante; in caso di mancata comunicazione, trascorso un giorno dall’inizio dell’assenza, l’assenza stessa sarà considerata ingiustificata, con le conseguenze previste dagli artt. 235 e 238 del presente contratto”; b) e l’art. 235 del CCNL che ribadisce l’obbligo di comunicazione delle assenze, affermando che, “salvo i casi di legittimo impedimento, di cui sempre incombe al lavoratore l’onere della prova, e fermo restando l’obbligo di dare immediata notizia dell’assenza al datore di lavoro, le assenze devono essere giustificate per iscritto presso l’azienda entro 48 ore per gli eventuali accertamenti”.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE ORDINANZA 22 maggio 2025, n. 13747

Svolgimento del processo

1.Con ricorso depositato il 5.5.2023, A.A. impugnava il licenziamento disciplinare intimatole da RCH Spa con lettera del 17.4.2023 all’esito della contestazione disciplinare datata 29.3.2013 e ricevuta il 7.4.2023, con la quale le veniva addebitata l’assenza ingiustificata dal lavoro dal 22.3.2023, i danni organizzativi determinati da tale assenza e la violazione dell’art. 235 del CCNL. Deduceva la nullità del licenziamento e la illegittimità dello stesso, stante la sussistenza di un legittimo impedimento ad espletare l’attività lavorativa, nonché la sproporzione della sanzione espulsiva. Concludeva chiedendo in via principale l’accertamento della nullità del licenziamento e, in subordine, della sua illegittimità, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate. In via ulteriormente gradata, chiedeva la sostituzione del licenziamento con la sanzione disciplinare della multa, con conseguente reintegrazione ex art. 18, L. 300/1970. In ogni caso, chiedeva la condanna della società convenuta al pagamento delle spettanze di fine rapporto (ferie, permessi, ratei di 13° e 14°, indennità sostitutiva del preavviso e dell’ultima retribuzione maturata), oltre accessori e spese processuali, da distrarsi.

2. Con sentenza n. 11138/2023, del 07/12/2023, il Tribunale di Roma accoglieva solo in parte il ricorso, condannando la società resistente al pagamento delle retribuzioni non corrisposte e delle spettanze di fine rapporto mentre respingeva l’impugnativa del licenziamento ritenendo prive di giustificazione sia le assenze che l’omessa comunicazione dell’impossibilità di recarsi al lavoro.

3. Con sentenza n. 686/2024 del 23/02/2024 la Corte d’Appello di Roma rigettava l’appello proposto dalla lavoratrice. In particolare, premesso il contenuto degli artt. 184, 235 e 236 del CCNL di categoria, la Corte territoriale riteneva non raggiunta la prova circa l’impossibilità della lavoratrice di comunicare la propria assenza sin dal primo giorno della malattia (22 marzo) e, di conseguenza, indubbiamente ingiustificati, oltre che non comunicati, i giorni di assenza del 22, 23 e 24 marzo 2023 e parimenti ingiustificate le assenze dei giorni 27 e 28 marzo alla luce del tenore del certificato medico inviato e della deduzione della società, non ritualmente contestata dalla lavoratrice, dell’impossibilità, come stabilito con circolare INPS del 15.7.1996, n. 147, di riconoscere la sussistenza dello stato morboso anche per il giorno precedente alla visita e del difetto di prova circa il riconoscimento da parte dell’INPS di tali giorni come malattia. In ordine alla proporzionalità della sanzione espulsiva, la Corte riteneva che “la protrazione dell’assenza ingiustificata per ben cinque giorni lavorativi, valutata unitamente alla violazione degli obblighi di comunicazione al datore di lavoro, determini una irreversibile lesione del vincolo fiduciario, non potendo il datore di lavoro fare affidamento sulla correttezza dei futuri adempimenti. Del tutto irrilevante è l’assenza di danni o disfunzioni dell’organizzazione aziendale derivati dall’assenza ingiustificata della lavoratrice, essendo il provvedimento espulsivo proporzionato alla gravità delle violazioni degli obblighi di comunicazione e giustificazione delle assenze”.

4. Avverso la decisione di secondo grado propone ricorso per cassazione la A.A. affidato a tre motivi.

5. Replica con controricorso la RCH Spa

6. Solo parte ricorrente ha depositato memorie illustrative.

Motivi della decisione

1.Con il primo motivo di cassazione la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli art. 36, 2232, 2549 c.c., e della legge 1815 del 1939, artt. 235 e 238 CCNL in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 e art. 360 co. 1 n. 5 cpc per avere la Corte d’Appello ritenuto applicabile la sanzione del licenziamento per giusta causa, ravvisando la fattispecie dell’assenza ingiustificata ove, al contrario, la giustificazione era stata effettivamente resa dal lavoratore sia pure in modo non perfettamente obbediente alla liturgia contrattuale. Evidenziava che la consegna del certificato medico, seppur dopo l’esordio della malattia e dell’assenza, impedisce che si produca la fattispecie inadempiente dell’assenza ingiustificata e riconduce l’episodio alla più lieve ipotesi della giustificazione tardiva dell’assenza.

2. Con il secondo motivo di ricorso ex art. 360 n. 3 c.p.c. la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. per avere la Corte d’Appello ritenuto incontestata l’insussistenza della malattia nei giorni del 27 e 28 marzo 2023, considerando la circolare INPS, allegata tardivamente solo in appello, quale prova che l’Ufficio preposto avesse in concreto escluso detti giorni dal computo della malattia, così invertendo l’onere incombente sul datore di dimostrare il mancato riconoscimento dello stato patologico da parte dell’INPS.

3. Con il terzo motivo di ricorso la A.A. lamenta, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. per manifesta sproporzione della sanzione irrogata atteso che il licenziamento era stato comminato per asserite plurime assenze ingiustificate e non, come affermato dalla Corte d’Appello, per non aver dato tempestiva comunicazione dell’assenza e che non si era realizzato alcun danno e/o disservizio in conseguenza dell’assenza della lavoratrice.

4. Il primo motivo è palesemente inammissibile. In primo luogo, ci si trova di fronte ad un motivo c.d. “misto” – deducendosi sia il l’omesso esame di fatto decisivo sia la violazione o falsa applicazione di legge – con conseguente applicazione del principio per cui è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, e ciò in quanto una simile formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874/2018; Cass. n. 7009/2017; Cass. n. 21611/2013; Cass. n. 19443/2011).

4.1. In secondo luogo, si deve ulteriormente rilevare che il motivo con cui si denunzia il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di legge deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assertivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare essa il fondamento della lamentata violazione. Le censure di parte ricorrente non vanno al di là dell’elencazione dei precetti normativi, riportati nella sola epigrafe, ma non specificamente comparati ai capi della decisione impugnati. In tal modo, si risolvono in doglianze assertive e ridondanti, senza evidenziare appunto quali sarebbero, in relazione a ciascuna norma elencata, gli errori nel giudizio di diritto in cui sarebbe incorso il giudice del merito e quindi perché le relative statuizioni non sarebbero conformi alle previsioni di legge. Le doglianze, a fronte della formulata denunzia di violazione di norme di diritto, si sostanziano, in realtà, nella mera richiesta di un diverso accertamento del fatto operato dalla Corte d’Appello, in tal modo involgendosi un’indagine non rientrante però nei limiti strutturali e funzionali del giudizio di cassazione.

4.2. Infine, quanto alla doglianza ex art. 360, n. 5) c.p.c. essa è inammissibile. Nell’ipotesi (come quella di specie, avendo il giudice di appello confermato – per quanto rileva in questa sede – la decisione di primo grado) di c.d. “doppia conforme” (art. 360, quarto comma, c.p.c., per essere la presente impugnazione notificata successivamente al 1 gennaio 2023; in precedenza la disciplina era dettata dall’art. 348 ter, comma quinto, c.p.c.) è onere del ricorrente, nella specie non assolto, indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e del rigetto dell’appello, dimostrando che sono tra loro diverse (tra le altre: Cass. n. 5947/2023; Cass. n. 26934/2023). Piuttosto che dolersi di un fatto controverso e decisivo non esaminato dal giudice, la ricorrente, nella sostanza, invoca un improprio riesame di merito degli apprezzamenti istruttori, fondati sulle risultanze testimoniali e documentali. Scandaglio che, ovviamente, è precluso al Giudice di legittimità.

5. Il secondo motivo è inammissibile ed in ogni caso infondato. Per giurisprudenza costante di questa Corte (ex multis Cass. sez. lav. n. 17313/2020, Rv. 658541-01; Cass. n. 26769/2018, Rv. 650892-01; Cass. n. 13395/2018, Rv. 649038-01; Cass. n. 15107/2013, Rv. 626907-01; Cass. n. 19064/2006, Rv. 592634-01) nel ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 cod. civ. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse o non avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.. Per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., occorre, poi, denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 cod. proc. civ.

5.1. Nella specie nessuno di detti oneri è stato compiutamente assolto nella prospettazione del motivo di ricorso, che si limita a chiedere un diverso apprezzamento del materiale probatorio raccolto, e omette di confrontarsi con la costante affermazione di questa Corte secondo la quale (Cass. n. 37382/2022 Rv. 666679 – 05) la valutazione del materiale probatorio – in quanto destinata a risolversi nella scelta di uno (o più) tra i possibili contenuti informativi che il singolo mezzo di prova è, per sua natura, in grado di offrire all’osservazione e alla valutazione del giudicante – costituisce espressione della discrezionalità valutativa del giudice di merito ed è estranea ai compiti istituzionali della S.C., restando totalmente interdetta alle parti la possibilità di discutere, in sede di legittimità, del modo attraverso il quale, nei gradi di merito, sono state compiute le già menzionate valutazioni discrezionali.

5.2. Occorre, inoltre, sottolineare che il datore di lavoro, su cui a norma dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966 grava l’onere della prova della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, può limitarsi, nel caso in cui la giusta causa sia costituita dalla assenza ingiustificata del lavoratore dal servizio, nella sua valenza di inadempimento sanzionabile sul piano disciplinare, a provare l’assenza nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare gli elementi che possono giustificare l’assenza e in particolare la sua dipendenza da causa a lui non imputabile (in tal senso Cass. n. 16597/2018, Rv. 649500-01; Cass. n. 12429/2018; Cass. n. 2988/2011, Rv. 615909 – 01). Ove l’assenza sia connessa aduno stato di malattia, infatti, l’onere incombente sul prestatore di dimostrare la sussistenza di una causa di giustificazione, non può ritenersi assolto alla stregua della pura e semplice allegazione della circostanza suddetta, essendo gravato dall’onere di dimostrare la sussistenza della malattia (cfr. Cass. n. 13352/1999; Rv. 531681-01; Cass. n. 922 del 1996, in motivazione).

5.3. Nel caso di specie la Corte d’Appello ha ritenuto, in base ad una valutazione insindacabile in questa sede, in primo luogo, che fosse provato che la ricorrente “si è assentata dal lavoro a partire da mercoledì 22 marzo 2023 e nulla ha comunicato all’azienda sino a mercoledì 29 marzo 2023”. Ha poi evidenziato che l’art. 184 del CCNL prevede che, a meno che non sussista un giustificato e comprovato impedimento “il lavoratore ha l’obbligo di dare immediata notizia della propria malattia a/ datore di lavoro e di comunicare il numero di protocollo identificativo del certificato medico inviato dal proprio medico curante; in caso di mancata comunicazione, trascorso un giorno dall’inizio dell’assenza, l’assenza stessa sarà considerata ingiustificata, con le conseguenze previste dagli artt. 235 e 238 del presente contratto”. L’obbligo di comunicazione delle assenze è ribadito dal successivo art. 235 del CCNL, secondo cui “salvo i casi di legittimo impedimento, di cui sempre incombe al lavoratore l’onere della prova, e fermo restando l’obbligo di dare immediata notizia dell’assenza al datore di lavoro, le assenze devono essere giustificate per iscritto presso l’azienda entro 48 ore per gli eventuali accertamenti”. La Corte territoriale ha, dunque, evidenziato come non emergesse alcun elemento attestante l’impossibilità della lavoratrice di comunicare la propria assenza sin dal primo giorno della malattia e in secondo luogo che risultavano non giustificate e non comunicate non solo le assenze del 22, 23 e 24 marzo 2023, ma anche quelle dei giorni 27 e 28 marzo posto che “la circostanza che le assenze del 27 e 28 marzo siano state riconosciute dall’INPS come malattia non è suffragata da alcun elemento probatorio mentre è incontroverso che la circolare INPS richiamata dalla società appellata esclude nel caso di visita ambulatoriale la possibilità di riconoscere lo stato morboso prima della data della visita”. La valutazione della Corte, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, è incensurabile in questa sede di legittimità, poiché è sorretto da una motivazione adeguata ed immune da vizi.

5.4. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c. essa è inammissibile. Premesso che costituisce elemento valutativo riservato al giudice del merito, apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte (così Cass. n. 3680/2019, Rv. 653130-01), sicché tale apprezzamento è censurabile in sede di legittimità esclusivamente per incongruenza o illogicità della motivazione, non spettando a questa Corte il potere di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni poste a fondamento della decisione (Cass. n. 13217/2014, Rv. 631806-01), va, comunque, rilevato che anche la censura di falsa applicazione del principio di non contestazione, e dunque dell’art. 115, comma 2, cod. proc. civ., soggiace alla necessità dell’osservanza dell’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ. Difatti, allorché sia denunciata una non corretta applicazione del principio di “non contestazione” – e ciò a prescindere dal contenuto della doglianza formulata, e dunque tanto nell’ipotesi in cui si lamenti che il giudice abbia ritenuto operante il principio in assenza dei suoi presupposti (tal è, appunto, il caso che occupa), quanto nel caso in cui ci si dolga, al contrario, dell’erronea esclusione della sua operatività – il ricorrente è tenuto non solo ad “indicare la sede processuale di adduzione delle tesi ribadite o lamentate come disattese”, inserendo nel ricorso “la trascrizione dei relativi passaggi argomentativi” e ciò mercé “la riproduzione degli atti del giudizio nella misura necessaria” a tale scopo (Cass. n. 16655/2016, Rv. 641486-01), ma anche ad “indicare specificamente il contenuto della comparsa di risposta avversaria e degli ulteriori atti difensivi” (cfr. Cass. n. 15058/2024, Rv. 671191-01; Cass. n. 12840/2017, Rv. 644383-01), in modo da consentire a questa Corte di valutare la sussistenza dei presupposti per la corretta applicazione dell’art. 115, comma 2, cod. proc. civ. Nella specie, tale onere non risulta essere stato adempiuto, donde l’inammissibilità del motivo.

6. Il terzo motivo è inammissibile. Deve, infatti, rimarcarsi che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. n. 25182/2024, Rv. 672388 – 01; Cass. n. 24054/2017, Rv. 646811-01; Cass. n. 26110/2015, Rv. 638171 – 01; Cass. n. 16698/2010; Cass. n. 7394/2010).

6.1. Ciò posto occorre evidenziare che, se è senz’altro vero che la violazione dell’obbligo di comunicazione dell’assenza è mancanza distinta e non sovrapponibile a quella dell’assenza ingiustificata, dal testo della missiva di contestazione del 29 marzo, riprodotta in ricorso, emerge chiaramente che alla A.A. sia stata contestata sia l’assenza ingiustificata protrattasi per oltre tre giorni sia l’omessa comunicazione dell’assenza e della sua “giustificatezza”, quest’ultima tramite il richiamo alla violazione dell’art. 235 del CCNL. Si legge, infatti, nella missiva “La presente per comunicarle che a decorrere dal 22.3.2023 alla data odierna, Lei non si è presentata al posto di lavoro. Non essendo pervenuta ad oggi, alcuna documentazione della Sua assenza che a tutt’oggi perdura, non possiamo che rinvenire nel Suo comportamento le seguenti infrazioni disciplinari: plurime assenze ingiustificate dal luogo di lavoro; danni in termini organizzativi e di qualità del servizio; violazione dell’art. 235 del CCNL Terziario distribuzione e servizi”. L’art. 235 del CCNL, intitolato “Giustificazione delle assenze” prevedeva, infatti, “Salvo i casi di legittimo impedimento, di cui sempre incombe al lavoratore l’onere della prova, e fermo restando l’obbligo di dare immediata notizia dell’assenza al datore di lavoro, le assenze devono essere giustificate per iscritto presso l’azienda entro 48 ore per gli eventuali accertamenti. In relazione alla giustificazione delle assenze in caso di malattia, e fermo restando l’obbligo di dare immediata notizia dell’assenza al datore di lavoro, quanto previsto dal presente si realizza anche mediante la comunicazione scritta, a mezzo di fax, mail certificata o raccomandata, del numero di protocollo identificativo del certificato medico inviato per via telematica dal medico all’Inps”.

6.2. Nella specie è evidente che la ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., che – nella versione ratione temporis applicabile – lo circoscrive all’omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014).

6.3. Invero, come questa Corte ha affermato, l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito -mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva appunto, in cui si colloca la fattispecie – “è sindacabile in Cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 13534 del 2019; nello stesso senso, Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005). L’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento opera sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito. Solamente l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; invece, l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta”, spettando inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (in termini Cass. n. 18247 del 2009 e Cass. n. 7838 del 2005).

6.4. La parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi (perché in tal modo trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto, di competenza del giudice di merito), ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state commessi, intensità dell’elemento intenzionale, etc.), così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. n. 18715 del 2016). In tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono, infatti, demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che – anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità.

6.5. Rientra, peraltro, tra gli obblighi di correttezza e diligenza del prestatore di lavoro anche quello di comunicare tempestivamente al datore di lavoro eventuali impedimenti nel regolare espletamento della prestazione che determinino la necessità di assentarsi, sicché il mancato rispetto di tale obbligo può giustificare il licenziamento, poiché la mancata comunicazione dell’assenza dal lavoro, anche se in astratto dovuta a motivi legittimi, è idonea ad arrecare alla controparte datoriale un pregiudizio organizzativo, derivante dal legittimo affidamento in ordine alla supposta effettiva ripresa della prestazione lavorativa (cfr. Cass. n. 10352/2014, Rv. 630789-01; Cass. n. 10552/2013, Rv. 626433-01).

6.6. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto che, a fronte della contestazione sia dell’assenza ingiustificata protrattasi per oltre tre giorni, “addebito già autonomamente sanzionato con il licenziamento dal CCNL”, che dell’omessa comunicazione delle assenze, “la protrazione dell’assenza ingiustificata per ben cinque giorni lavorativi, valutata unitamente alla violazione degli obblighi di comunicazione al datore di lavoro, determini una irreversibile lesione del vincolo fiduciario, non potendo il datore di lavoro fare affidamento sulla correttezza dei futuri adempimenti. Del tutto irrilevante è l’assenza di danni o disfunzioni dell’organizzazione aziendale derivati dall’assenza ingiustificata della lavoratrice, essendo il provvedimento espulsivo proporzionato alla gravità delle violazioni degli obblighi di comunicazione e giustificazione delle assenze”. Evidentemente si tratta di una ricostruzione della vicenda storica effettuata dai giudici del merito cui esclusivamente compete e che è invece criticata da parte ricorrente mutando il “narrato” della sentenza impugnata, che è invece intangibile in questa sede.

7. Il ricorso, in conclusione, va dichiarato inammissibile.

8. La ricorrente va condannata alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente liquidate come da dispositivo.

9. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115

D.P.R. 30/05/2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso

condanna la ricorrente A.A. al pagamento, in favore della controricorrente RCH Spa delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200 ed agli accessori di legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.

Nota a Cass. (ord.) 22 maggio 2025, n. 13747