Proselitismo, rifiuto di effettuare trattenute e condotta antisindacale

La Corte di Cassazione (ord. 17 ottobre 2025, n. 27722) ha dichiarato antisindacale il rifiuto del datore di lavoro di effettuare le trattenute sindacali in relazione alla cessione di credito di cui aveva ricevuto la comunicazione da parte dei suoi dipendenti di versare ad un sindacato i contributi sindacali trattenuti mensilmente sulle retribuzioni e dovuti in forza delle deleghe conferite dai lavoratori aderenti al predetto sindacato.

I giudici hanno rilevato che:

1) l’effetto del referendum del 1995 (abrogativo del co. 2, art. 26 Stat. lav., cui ha fatto seguito il D.P.R. n. 313/1995)  è stato quello di eliminare dall’ordinamento il diritto del sindacato e l’obbligo del datore di lavoro scaturente dal suddetto art. 26, ma non di porre un divieto e rendere quindi illecita la condotta di riscossione delle quote associative sindacali a mezzo trattenuta operata dal datore di lavoro. Tuttavia, anche dopo il referendum “sono rimaste valide le pattuizioni contrattuali che prevedono l’effettuazione delle trattenute ed è stata sostituita la fonte contrattuale a quella legale. In altri termini, l’effetto del referendum è stato soltanto quello di “eliminare una norma attributiva di un diritto, ma non di vietare comunque la condotta con cui tale diritto si esplicava” (sulla legittimità della cessione del credito come strumento per ottenere il pagamento da parte delle organizzazioni sindacali delle quote associative, v. Cass. n. 3917/2004);

2) a seguito della cessione di credito, il sindacato ricorrente è diventato titolare del credito ceduto e sulla società convenuta gravava l’obbligo legale di adempiere secondo le disposizioni impartite dal lavoratore cedente, risultando quindi inadempiente nei confronti del sindacato medesimo;

3) tale cessione non richiede il consenso del creditore ceduto, ma solo la notificazione a lui della cessione stessa;

4) “il rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di effettuare i versamenti richiesti: a) configura un inadempimento sul piano civilistico; b) concretizza una condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav., in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività” (Cass. SU n. 28269/2005); c) assume caratteri discriminatori rispetto agli altri sindacati che invece ricevono i contributi sindacali, “a nulla rilevando la diversità dei mezzi giuridici utilizzati allo scopo atteso che il rifiuto dell’azienda di effettuare le trattenute sindacali costituisce un ostacolo all’esercizio e allo sviluppo dell’attività sindacale”; d) costituisce un “illogico impedimento del sostegno volontario dei lavoratori all’efficace esplicarsi della azione sindacale protetta dalla Costituzione come strumento per l’elevazione dei medesimi lavoratori e con essi dell’intero Paese ed introdurrebbe un divieto di cessione che si pone esplicitamente contro la giurisprudenza di questa Corte” (v. Cass. n. 24612/2019);

5) “qualora il datore di lavoro affermi che la cessione comporti in concreto, a suo carico, un nuovo onere aggiuntivo insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex art. 1374 e 1375 cod. civ., deve provarne l’esistenza” (Cass. SU, cit.);

6) la mancata sottoscrizione del contratto collettivo da parte di un sindacato non costituisce un elemento rilevante in quanto la cessione di credito è uno strumento che prescinde dall’esistenza di un contratto collettivo;

7) non osta all’illegittimità del comportamento datoriale la disciplina del D.P.R. n. 180/1950, che — nel testo vigente dopo le riforme del 2004 e 2005 — limita la cessione del quinto per finalità creditizie ma non la cessione di crediti retributivi destinati al pagamento delle quote associative, espressamente consentita dall’art. 52 del Decreto medesimo.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE  ordinanza 17 ottobre 2025, n. 27722

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di L’Aquila, con la sentenza in atti, ha rigettato l’appello proposto da FCA ITALY Spa ed ha confermato la sentenza del Tribunale di Lanciano che aveva respinto l’opposizione al decreto ex art. 28 L. n. 300/70 che aveva dichiarato l’antisindacalità della condotta tenuta da FCA per aver omesso di effettuare le trattenute sindacali in relazione alla cessione di credito di cui aveva ricevuto la comunicazione da parte dei suoi dipendenti di versare alla COBAS DEL LAVORO PRIVATO i contributi sindacali trattenuti mensilmente sulle retribuzioni e dovuti in forza delle deleghe conferite dai lavoratori aderenti alla predetta OS; il Tribunale aveva altresì ordinato alla FCA ITALY Spa di cessare siffatto comportamento e di rimuoverne gli effetti procedendo all’immediato pagamento di Euro 10 mensili per ciascuno iscritto full time e ciò sino alla data di revoca delle iscrizioni predette (per chi aveva revocato) ovvero sino alla data di accredito ordinario dei contributi, oltre a rivalutazione ed interessi.

A fondamento della sentenza, la Corte d’Appello ha ritenuto la legittimazione attiva del sindacato COBAS DEL LAVORO PRIVATO sulla scorta della effettiva diffusa attività sindacale (sottoscrizione di numerosi accordi, indizione di scioperi, partecipazione all’iniziative di confronto sindacale) su almeno gran parte del territorio nazionale siccome accertato in giudizio; ha inoltre disatteso l’eccezione di tardività del ricorso ex art. 28 depositato in data 14/12/2018 in quanto nella fattispecie, pur se la prima comunicazione della parziale cessione del credito in favore del sindacato COBAS era del 9/2/2017, FCA aveva continuato a non operare le trattenute sindacali sugli stipendi dei lavoratori richiedenti, anche nelle mensilità successive, con effetti permanenti rinnovando mensilmente la propria condotta negatoria che era proseguita anche a seguito della ricezione delle note di diffida in data 19/4/2017 e 9/8/2018.

La Corte d’Appello ha anche affermato l’irrilevanza dell’elemento soggettivo ai fini dell’integrazione del comportamento sindacale e nel merito ha sostenuto che, a seguito del referendum abrogativo del 2 e 3 comma dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori, la materia delle trattenute sindacali era regolata dalla autonomia privata ed in particolare dal principio generale della libera cedibilità dei crediti sancito dall’art. 1260 c.c. anche senza il consenso del creditore (come affermato dalla Cassazione n. 14032/2004 e ribadito dalle Sezioni Unite n. 28269/2005); era perciò legittima la cessione del credito operata dai lavoratori in favore del proprio sindacato di appartenenza secondo i principi civilistici che regolano la cessione del credito con conseguente antisindacalità del comportamento del datore di lavoro che rifiuti di darvi corso.

Ha rilevato inoltre che la normativa del D.P.R. n. 180/1950, nel testo vigente a seguito delle modifiche introdotte dalle leggi nn. 311 del 2004 e 80 del 2005, non vietava affatto la cessione di credito di natura retributiva ma aveva soltanto resa più rigida la disciplina in materia di cessione del quinto dello stipendio finalizzata all’estinzione di prestiti monetari allo scopo di contrastare il fenomeno dell’usura. La nuova normativa non vietava pertanto ai dipendenti di utilizzare lo strumento della cessione del credito retributivo per il pagamento delle quote associative alle organizzazioni sindacali, trattandosi di fattispecie indubbiamente ricompresa nelle previsioni del novellato art. 52 del D.P.R. 180 del 1950.

La Corte ha altresì evidenziato che la stessa disposizione non era menzionata nella sentenza impugnata e che non era stato proposto un motivo di appello di omessa pronuncia sul punto.

Ha inoltre escluso i profili di incostituzionalità dedotti rispetto al precetto di cui all’art. 75 della Costituzione ed infine – quanto al preteso diritto di ottenere il rimborso di spese aggiuntive necessarie per dar corso in modo reiterato con cadenza mensile alla contabilizzazione ed al versamento della quota di credito ceduta – ha osservato che la parte appellante non aveva provato in modo puntuale e convincente che l’obbligo di effettuare le trattenute ed i successivi versamenti alle organizzazioni sindacali avesse comportato e comporterà in concreto a suo carico un aggiuntivo ed insostenibile onere in rapporto alla sua organizzazione aziendale.

Da ultimo la Corte territoriale ha pure rigettato l’appello in punto di errata quantificazione delle spese di lite di primo grado, sostenendo che il primo giudice aveva correttamente applicato lo scaglione delle cause di valore indeterminabile, atteso che il petitum della domanda non era costituito solo dal pagamento dei contributi essendo stato chiesto anche e soprattutto l’accertamento della antisindacalità della condotta datoriale al fine di ottenere la rimozione degli effetti prodotti in passato, ma anche la cessazione della medesima condotta antisindacale in proiezione futura.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione FCA ITALY Spa con sei motivi ai quali ha resistito COBAS DEL LAVORO PRIVATO con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria. All’esito della decisone il Collegio ha riservato il deposito della motivazione nel termine di 60 giorni.

Motivi della decisione

1.- Con il primo motivo si deduce ex art. 360 n. 3 c.p.c. violazione o falsa applicazione dell’articolo 28, legge n. 300 del 1970 e dell’articolo 116 c.p.c. in relazione all’eccepito difetto di legittimazione attiva di COBAS DEL LAVORO PRIVATO.

Il motivo è inammissibile perché mira in realtà al riesame dell’accertamento di fatto effettuato motivatamente dal giudice di merito circa l’esistenza della legittimazione del sindacato ricorrente sulla scorta della effettiva attività svolta anche a livello nazionale; quello che la censura sollevata richiede È appunto il riesame dei documenti allegati da COBAS a sostegno della diffusione nazionale della propria attività sindacale, una valutazione istruttoria non appartenente a questo Corte di cassazione e di pertinenza del giudice di merito, non potendo il vizio di legittimità essere mediato dal riesame di dati istruttori.

Quanto all’art. 116 c.p.c. non sussiste alcuna violazione di detta norma non avendo la Corte violato i limiti stabiliti dalla norma valutando secondo il suo prudente apprezzamento delle prove legali, ovvero considerando come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione discrezionale (Cass. n. 1229 del 17/01/2019).

Inoltre va rilevato che il potere del giudice di legittimità di sindacare gli accertamenti di fatto è limitato alla mancanza della motivazione nei termini indicati da SU n. 8053/2014 o alla mancata valutazione di un fatto decisivo o al travisamento del fatto, nei limiti in cui esso è deducibile in cassazione e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 14267 del 2006; cfr. pure Cass. 12 febbraio 2004 n. 2707).

2.- Con il secondo motivo, si deduce ex articolo 360 n. 3 c.p.c. la violazione o falsa applicazione dell’art. 28, L. n. 300 del 70 per l’inammissibilità del ricorso avversario in quanto tardivo.

2.1. Il motivo è infondato attesa la pacifica permanenza e persistenza della condotta sindacale messa in atto e la sua proiezione nel tempo, per come argomentato dal giudice di merito con valutazione logica ed argomentata e pertanto non sindacabile in questa sede. Ed invero in punto di attualità della condotta deve rilevarsi che essa esiste anche quando sono durevoli gli effetti di un comportamento antisindacale già consumato. Nel caso di specie, inoltre, le istanze di accredito delle somme dovute a titolo di contributivo sono state riproposte anche in seguito, con reiterazione del comportamento illegittimo, come accertato dal giudice di merito.

3.- Col terzo motivo ex articolo 360, numero 3 c.p.c. si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 in relazione alla inesistenza del comportamento antisindacale per carenza dell’elemento soggettivo.

Il motivo è infondato sia perché non occorre l’elemento soggettivo ai fini dell’art. 28 e sia perché esso involge accertamenti di merito, essendo apodittico sostenere che la volontà di non volersi sobbarcare costi che non sono di competenza, porti automaticamente ad escludere l’intenzione di danneggiare l’organizzazione COBAS del lavoro.

4.- Col quarto motivo, si sostiene ex art. 360, n. 3 c.p.c. la violazione o falsa applicazione dell’art. 26 legge n. 300 del 70, dell’art. 1260 c.c. e dell’art. 1 D.P.R. n. 180 del 1950, attesa la insussistenza del diritto di COBAS DEL LAVORO PRIVATO alle cessioni di credito.

Il motivo è infondato, anche alla luce delle precisazioni effettuate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 13/1995, con cui è stato ammesso il referendum abrogativo sul 2 e 3 comma dell’art. 26 dello Statuto dei lavoratori, avendo la Corte rilevato come “l’intento dei promotori del referendum è quello di restituire la materia all’autonomia privata facendo semplicemente venir meno l’obbligo giuridico che, scaturito dalle abrogande disposizioni, avrebbe in concreto determinato un vincolo contributivo a tempo indeterminato a carico del lavoratore, anche indipendentemente dalla permanenza del vincolo associativo. Ben altra sarebbe l’ipotesi in cui l’assunzione dell’obbligo datoriale derivasse da una genuina espressione di autonomia negoziale. Allora l’operare di altri istituti civilistici quali la cessione di credito o la delegazione di pagamento, al medesimo fine utilizzabili, si collocherebbe su un piano contrattuale e non sarebbe attuativo di una prescrizione legislativa”.

In altri termini, come affermato dalla successiva giurisprudenza di legittimità, l’effetto del referendum abrogativo è stato quello di eliminare dall’ordinamento il diritto del sindacato e l’obbligo del datore di lavoro da tale norma nascente, ma non di porre un divieto e rendere quindi illecita la condotta di riscossione delle quote associative sindacali a mezzo trattenuta operata dal datore di lavoro.

Non esistono perciò i presupposti, ad avviso del Collegio, per investire la Corte Cost. di una nuova questione di legittimità costituzionale, per contrarietà all’esito del referendum, atteso che quella in vigore non rappresenta una regolamentazione identica o analoga a quella oggetto del referendum abrogativo.

Anche dopo il referendum sono rimaste valide le pattuizioni contrattuali che prevedono l’effettuazione delle trattenute ed è stata sostituita la fonte contrattuale a quella legale; la normativa valevole sul piano contrattuale non è contraria all’esito scaturito dal referendum, perché l’effetto di questo è stato soltanto di eliminare una norma attributiva di un diritto, ma non di vietare comunque la condotta con cui tale diritto si esplicava.

La Corte di Cassazione lo ha ribadito nella sentenza n. 3917/2004, successiva al referendum, sostenendo l’assoluta legittimità dell’utilizzo della cessione del credito come strumento per ottenere il pagamento da parte delle organizzazioni sindacali delle quote associative e stabilendo che una norma che vieta al sindacato di ottenere il pagamento delle quote associative attraverso le trattenute sulla retribuzione dei dipendenti non esiste, né è stata introdotta come effetto o a seguito del referendum.

L’effetto del referendum è stato quello di espungere una norma, ma non certamente quello di determinare l’interpretazione di altre norme in vigore (come l’art. 1260 c.c.) o di imporre di per sé effetti impeditivi, quali ad esempio un ipotetico divieto di cessione.

E poi, evidente che l’istituto della cessione del credito di natura privatistica non preveda in generale il consenso del debitore ceduto, essendo solamente necessaria la notificazione di tale decisione (Cass. n. 5321/2017); né si vede perché diversa dovrebbe essere la materia delle trattenute sindacali.

Pertanto, a seguito della cessione di credito, il sindacato ricorrente è divenuto titolare del credito ceduto e la società convenuta aveva l’obbligo legale di adempiere secondo le disposizioni impartite dal lavoratore cedente risultando quindi inadempiente nei confronti di Cobas.

Risulta perciò che la datrice di lavoro rimanendo inadempiente abbia dato luogo anche ad un comportamento antisindacale ai sensi dell’art. 28 dello Statuto, che si caratterizza per la plurioffensività, configurando esso una violazione nei confronti dei lavoratori cedenti ed una condotta lesiva nei confronti del Cobas cessionario del credito che dai contributi dei propri associati trae anche i mezzi per lo svolgimento dell’attività sindacale. Il rifiuto opposto dalla convenuta di procedere alle trattenute in favore del Cobas assume anche caratteri discriminatori rispetto agli altri sindacati che invece ricevono i contributi sindacali, a nulla rilevando la diversità dei mezzi giuridici utilizzati allo scopo atteso che il rifiuto dell’azienda di effettuare le trattenute sindacali costituisce un ostacolo all’esercizio e allo sviluppo dell’attività sindacale (Cass. 3917/2004, n. 24612 del 02/10/2019).

Tutto ciò è stato pure ribadito dalle Sezioni Unite n. 28269/05 le cui giuste e consolidate considerazioni resistono ai rilievi critici sollevati nell’infondato ricorso che si giudica; è stato infatti osservato dalla SU che “Il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell’art. 26 dello statuto dei lavoratori, e il susseguente D.P.R. n. 313 del 1995 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo. Pertanto, ben possono i lavoratori, nell’esercizio della propria autonomia privata ed attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato – cessione che non richiede, in via generale, il consenso del debitore -, richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso; qualora il datore di lavoro affermi che la cessione comporti in concreto, a suo carico, un nuovo onere aggiuntivo insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex art. 1374 e 1375 cod. civ., deve provarne l’esistenza.

L’eccessiva gravosità della prestazione, in ogni caso, non incide sulla validità e l’efficacia del contratto di cessione del credito, ma può giustificare l’inadempimento del debitore ceduto, finché il creditore non collabori a modificare le modalità della prestazione in modo da realizzare un equo contemperamento degli interessi. Il rifiuto del datore di lavoro di effettuare tali versamenti, qualora sia ingiustificato, configura un inadempimento che, oltre a rilevare sul piano civilistico, costituisce anche condotta antisindacale, in quanto pregiudica sia i diritti individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire, sia il diritto del sindacato stesso di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività”.

Non rileva nemmeno la mancata sottoscrizione del contratto collettivo da parte di Cobas in quanto la cessione di credito è uno strumento che prescinde dall’esistenza di un contratto collettivo.

FCA sostiene inoltre che nella fattispecie opererebbe il divieto di cui al novellato art. 1 del D.P.R. n. 180 del 1950, nel testo vigente (a seguito delle norme introdotte dalle leggi nn. 311/2004 ed 80/2005) ai sensi del quale non possono essere sequestrati, pignorate e cedute, salve le eccezioni stabilite nei seguenti articoli ed in altre disposizioni di legge e gli stipendi, salari e le paghe.

Ma, al contrario, la corretta interpretazione del sistema normativo sorregge la conclusione presa dalla Corte di merito secondo cui il D.P.R. n. 180/1950 non vieti ai lavoratori dipendenti di utilizzare lo strumento della cessione del credito retributivo per il pagamento delle quote associative alle organizzazioni sindacali, trattandosi di fattispecie derogatoria consentita dalla stessa normativa indicata ai sensi del successivo art. 52 D.P.R. 180/ 1950, il quale prevede il diritto dei lavoratori di cedere quote della retribuzione, per finalità diverse dall’estinzione dei debiti, alle condizioni ivi stabilite.

D’altra parte la tesi sostenuta dalla ricorrente solleva essa sì un sospetto di legittimità costituzionale della normativa in commento, ai sensi degli artt. 3 e 39 Cost., laddove si tradurrebbe in un illogico impedimento del sostegno volontario dei lavoratori all’efficace esplicarsi della azione sindacale protetta dalla Costituzione come strumento per l’elevazione dei medesimi lavoratori e con essi dell’intero Paese ed introdurrebbe un divieto di cessione che si pone esplicitamente contro la giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 3917/2004) la quale, come già detto, ha osservato che in seguito al referendum un divieto di cessione non esiste, né è stato introdotto dal legislatore.

Inammissibile è poi la pretesa di voler accertare in questa sede l’insussistenza di un comportamento antisindacale in fatto (Cass. 22229 del 2024).

5.- Col quinto motivo si sostiene ex art. 360 n. 4. c.p.c. la violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. ai fini dell’accertamento e la declaratoria del diritto della società di ottenere il rimborso delle spese necessarie per decorso in modo reiterato con cadenze mensili alla contabilizzazione del versamento della quota di credito ceduto.

Il motivo ò inammissibile sia perché mira alla rivalutazione degli accertamenti in fatto effettuati dal giudice di merito in ordine all’inesistenza di chiare prove sui pretesi costi da rimborsare ad FCA; sia perché il giudice di merito non ha violato l’art. 116 c.p.c. nei termini in cui il contenuto della norma viene inteso dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 23940 del 2017 e Cass. n. 25192 del 2016).

6.- Col sesto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 cpc circa la condanna alle spese per l’errata quantificazione, avendo i giudici d’appello ritenuto corretta la sentenza di primo grado in punto di quantificazione delle spese di lite pari a 12.500 oltre rimborsi, Iva e cpa che la società in quanto soccombente era stata condannata a corrispondere in favore dell’associazione COBAS DEL LAVORO PRIVATO applicando erroneamente lo scaglione relativo al valore indeterminabile per essere l’importo preteso dal sindacato pari a complessive 1820 Euro e quindi di valore non indeterminabile.

Il motivo è inammissibile in quanto privo di autosufficienza posto che la censura avrebbe dovuto indicare in che misura sarebbero stati violati i minimi tariffari; inoltre esso non sottopone a critica e non si confronta con la ratio decidendi avendo il giudice di merito accertato che l’oggetto della causa non comprendesse solo il pagamento di una somma precisa, ma anche l’accertamento della condotta antisindacale e fosse pertanto di valore indeterminabile.

7.- In conclusione, per le ragioni sopra indicate, il ricorso deve essere rigettato e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come da dispositivo con distrazione per l’Avv. … antistataria.

Sussistono altresì le condizioni per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’articolo 13, comma 1-bis D.P.R. n. 115/2002.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in Euro 6000,00 per compensi e Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% e agli altri oneri di legge, con distrazione per l’Avv. … antistataria. Ai sensi dell’articolo 13, comma 1-quater D.P.R. numero 115 del 2000, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

Nota a Cass. (ord.) 17 ottobre 2025, n. 27722