Lavoratore assente per malattia che svolge un’altra attività

“Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.”

Qualora allo svolgimento di altra attività lavorativa o extra lavorativa consegua il licenziamento disciplinare, durante l’assenza per malattia del dipendente, “grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, atteso che l’art. 5 della l. n. 604 del 1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato” (v. Cass. n. 26496/2018)

Questi i principi ribaditi dalla Corte di Cassazione (4 settembre 2024, n. 23747) la quale si pone in linea con il giudice territoriale il quale aveva rilevato che, tramite l’esame delle prove prodotte dal datore di lavoro mediante attività investigativa (concretizzatasi nel piazzare una videocamera puntata sull’ingresso dell’esercizio commerciale), “nella maggior parte dei fotogrammi si notava il lavoratore svolgere attività del tutto prive di rilevanza… e insignificanti ai fini di pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio” (si trattava in particolare, di cd. attività “lavorative” “svolte a distanza di circa sette mesi dall’infortunio consistito nella distorsione di due dita della mano e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità”).

Sentenza: 

CORTE DI CASSAZIONE  Ordinanza 4 settembre 2024, n. 23747

Rilevato che

1.In data 12.2.2019 F. spa contestava al dipendente S.D.M. impiegato di 4° livello e in servizio presso la sede di Montalto Uffugo, che dal 24.12.2018 all’1.1.2019, benché assente dal lavoro per infortunio, era risultato avere svolto attività lavorativa nel bar “A.C.C. srl” sito in Lungro e di sua proprietà, utilizzando a tal fine, anche la mano infortunata sia per attività leggere come fumare, impiegare il telefono cellulare per attività di risposta alle chiamate e scrittura sullo stesso, salutare con la mano destra stringendo la mano dell’interlocutore, mantenere documenti etc, sia per attività lavorative più pesanti, come aprire e chiudere la porta del locale, sollevare sedie, anche con pezzi sovrapposti impilabili, sollevare tavoli, portare zaini e pacchi, aprire e chiudere la tenda parasole, aprire e chiudere la serranda del locale, caricare e scaricare masserizie dall’autovettura.

2. Con successiva missiva del 7.3.2019, ricevuta il 13.3.2019, veniva intimato al D.M. licenziamento per giusta causa.

3. Impugnato il provvedimento di recesso, il Tribunale di Cosenza, sia in fase sommaria che in sede di opposizione ex lege n. 92 del 2012, dichiarava la illegittimità del licenziamento per insussistenza del fatto, con ogni conseguenza reintegratoria e risarcitoria.

4. La Corte di appello di Catanzaro, con la sentenza n. 918/2021, sui reclami proposti da entrambe le parti, confermava la pronuncia del primo giudice rilevando, per quello che interessa in questa sede, che:

a) era onere del datore di lavoro dimostrare che l’attività svolta da dipendente era stata tale da mettere a rischio la sua piena guarigione e, quindi, compromettere l’interesse di esso datore;

b) la contestazione non riguardava la gestione di una attività commerciale ma l’avere svolto attività materiali idonee a compromettere la guarigione e, comunque, incompatibili, con lo stato di malattia del lavoratore;

c) gli accertamenti erano consistiti nell’apposizione di una telecamera puntata sull’ingresso dell’esercizio commerciale;

d) nella maggior parte dei fotogrammi, si vedeva il lavoratore svolgere attività del tutto prive di rilevanza; solo in quattro episodi si notava che lo stesso svolgeva attività di cui alla lettera di contestazione che, però, in quanto svolte a distanza di circa sette mesi dall’infortunio (consistito nella distorsione di due dita della mano) e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità, non erano tali da incidere o pregiudicare la guarigione;

e) restava dunque non provata la illiceità del comportamento.

5. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione F. spa affidato a tre motivi cui ha resistito con controricorso S.D.M.

6. Le parti hanno depositato memorie.

7. Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.

Considerato che

1.I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo la ricorrente AZIENDA denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cc, con riferimento all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere la Corte distrettuale considerato la circostanza secondo cui l’attività svolta aveva caratteristiche tali da mettere a rischio la piena guarigione, come risultava dalla documentazione medica dell’INAIL che pochi giorni prima dei fatti aveva confermato la totale e assoluta inabilità del D.M. e dalle dichiarazioni rese dallo stesso lavoratore che aveva affermato nella maniera più assoluta di potere attendere a qualsiasi attività che non fosse quella di minimo utilizzo dell’arto infortunato, per cui non era corretto, da parte dei giudici di secondo grado, precisare che il datore non aveva ottemperato all’onere della prova su di esso incombente.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 cc e dell’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1970, anche in relazione all’art. 2697 cc, con riferimento all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte territoriale affermato una carenza assoluta di illiceità disciplinare, da cui aveva fatto discendere una valutazione di insussistenza della giusta causa di recesso, rilevando la compatibilità dell’infortunio con l’attività lavorativa realizzata senza che il lavoratore nulla avesse dedotto in relazione alle prove rappresentate dalle indagini investigative in atti e facendo, quindi, un uso palesemente distorto dei parametri di valutazione della gravità della condotta.

4. Con il terzo motivo la ricorrente obietta la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 co. 4 legge n. 300 del 1970, con riferimento all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte distrettuale erroneamente disposto la tutela reintegratoria pur in presenza di un fatto storico contestato materialmente sussistente.

5. Il primo motivo non è fondato.

6. I principi di diritto cui avere riguardo sono rappresentati dai precedenti di questa Corte (Cass. n. 13063/2022) secondo cui, in materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extra lavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, atteso che l’art. 5 della l. n. 604 del 1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato e (Cass. n. 26496/2018) secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.

7. Le statuizioni della gravata pronuncia sono in linea, in punto di diritto, con i suddetti principi in tema di onere della prova, così escludendo ogni asserita violazione di cui all’art. 2697 cod. civ. e, con un accertamento di fatto, argomentato con motivazione esente dai vizi di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, nuova formulazione ratione temporis applicabile, la Corte territoriale ha rilevato, attraverso l’esame delle prove prodotte dal datore di lavoro (attività investigativa consistita nell’avere piazzato una videocamera puntata sull’ingresso dell’esercizio commerciale -Bar “A.C.C.” – ininterrottamente dalle ore 23:00 del 23.12.2018 alle ore 22:00 dell’1.1.2019) che, nella maggior parte dei fotogrammi si notava il lavoratore svolgere attività del tutto prive di rilevanza e solo in quattro episodi era stato visto spostare dall’esterno all’interno del bar prima un tavolino a tre gambe e poi alcune sedie di plastica (24 dicembre), prelevare da un’auto parcheggiata proprio di fronte all’ingresso del bar due scatole di cartone portandole all’interno del bar (27 dicembre), portare fuori dal bar tre scatole di cartone (28 dicembre) e sollevare, infine, una sedia sempre di plastica 1° gennaio).

La Corte distrettuale ha considerato tali azioni insignificanti, ai fini di pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, in quanto si trattava di cd. attività “lavorative” svolte a distanza di circa sette mesi dall’infortunio consistito nella distorsione di due dita della mano e a pochi giorni dalla fine del periodo di diagnosticata inabilità.

8. Si verte, pertanto, in una valutazione sulle risultanze delle prove come nella scelta, tra le varie emergenze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, che involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad una esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. n. 16467 del 2017).

9. Anche il secondo motivo è infondato.

10. Va sottolineato il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo -configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.

Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

11. Nel caso in esame, pertanto, ritenute inammissibili tutte le doglianze riguardanti la ricostruzione e le modalità della vicenda in fatto, con specifico riferimento alla censura concernente la asserita violazione del parametro normativo di cui all’art. 2119 cod. civ. va condiviso l’assunto della Corte territoriale che, proprio sulla base delle risultanze istruttorie acquisite, ha ritenuto irrilevante, per la sua inconsistenza, la condotta posta in essere dal lavoratore in relazione all’addebito di avere pregiudicato e/o ritardato la guarigione ed il rientro in servizio: eventi che non erano stati peraltro dimostrati.

12. Infine, anche il terzo motivo non è meritevole di accoglimento.

13. E’ un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 13383/2017; Cass. n. 29062/2017; Cass. n. 3655/2019) quello secondo cui la “insussistenza del fatto contestato”, di cui all’art. 18, comma 4, St. lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della l. n. 92 del 2012, fattispecie cui si applica la tutela reintegratoria cd. attenuata, comprende sia l’ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, non presenti profili di illiceità.

14. La pronuncia della Corte di appello è conforme a tale principio avendo appunto rilevato la insussistenza della giuridica illiceità del comportamento materialmente posto in essere dal lavoratore.

15. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

16. Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.

17. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Nota a Cass. (ord.) 4 settembre 2024, n. 2374