Modifica unilaterale della collocazione temporale dell’orario part time del lavoratore disabile

“Nel contratto di lavoro part time – che con il contratto di lavoro a tempo pieno ha in comune la causa giuridica tipica (cioè lo scambio di lavoro-retribuzione), differenziandosene soltanto per la riduzione quantitativa della prestazione lavorativa (e, correlativamente, della retribuzione) – il carattere necessariamente bilaterale della volontà in ordine a tale riduzione nonché della collocazione della prestazione lavorativa in un determinato orario (reputato dalle parti come il più corrispondente ai propri interessi) comporta che ogni modifica di detto orario non possa essere attuata unilateralmente dal datore di lavoro in forza del suo potere di organizzazione dell’attività aziendale, essendo invece necessario il mutuo consenso di entrambe le parti, salvo che nel contratto individuale l’orario della prestazione lavorativa sia determinato soltanto nella durata senza alcuna specificazione della sua collocazione temporale (cosiddette clausole elastiche)” (in tal senso, v. Cass. n. 30093/2023; Cass, n. 13470/2003 e Cass. n. 3898/2003, la quale ha precisato che l’orario di lavoro pattuito nel contratto individuale di lavoro a tempo parziale non può essere modificato unilateralmente dal datore di lavoro, neanche se la modifica sia stata prevista da accordi collettivi col sindacato cui è iscritto il singolo lavoratore interessato).

Lo afferma la Corte di Cassazione (7 novembre 2024, n. 28657), sulla base delle seguenti considerazioni:

– secondo l’art. 5, co. 2, D.LGS. n. 81/2015: “Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”;

– ai sensi dell’art. 10, co. 3, D.LGS. n. 81/2015: “Lo svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche senza il rispetto delle condizioni, delle modalità e dei limiti previsti dalla legge o dai contratti collettivi comporta il diritto del lavoratore, in aggiunta alla retribuzione dovuta, a un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno”;

– le “clausole elastiche” cui si riferisce la norma cit. sono specificate dall’art. 6, co. 4, dello stesso D.LGS. n. 81/2015, il quale recita: “Nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, le parti del contratto di lavoro a tempo parziale possono pattuire, per iscritto, clausole elastiche relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa ovvero relative alla variazione in aumento della sua durata”. Nel caso di specie, non si configura uno “svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche” in spregio ad una previsione collettiva, in quanto il lavoratore aveva allegato che la datrice di lavoro aveva unilateralmente modificato la collocazione temporale della sua prestazione lavorativa rispetto a quanto indicato nel contratto individuale;

– i suddetti principi di diritto vanno confermati a maggior ragione per i lavoratori assunti a tempo parziale in base alle “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” di cui alla L. n. 68/1999. Infatti, anche una collocazione temporale della prestazione del disabile a tempo parziale, che sia diversa da quella indicata e concordata nel contratto individuale di lavoro, può risultare incompatibile con le minorazioni del prestatore. Sicché, laddove nel contratto individuale (ex art. 5, co. 2, D.LGS. n. 81/2015) si concordi con il datore di lavoro una determinata collocazione temporale dell’orario mediante una clausola anelastica, ciò “rende programmabile un altrettanto determinato tempo libero, in funzione anche di un più pronto recupero delle energie psico-fisiche del prestatore di lavoro, ovviamente più pregnante in tesi nel caso di sua disabilità, se non di cure e terapie che costui debba seguire, nello “spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita” (cfr. Corte Cost. n. 210/1992). Il che, peraltro, risponde alla regola generale, secondo la quale: “Il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni” (art. 10, co. 2, L. n. 68/1999).

Nella fattispecie, il lavoratore aveva, allegato una precisa collocazione temporale (articolata su base settimanale) dell’orario part time, concordata mediante un contratto individuale di lavoro che non contemplava in proposito clausole c.d. elastiche tali da consentire al datore di lavoro di variare la “collocazione temporale della prestazione lavorativa” (art. 6, co. 4, D.LGS. n. 81/2015).

A fronte di tale clausola rigida, il prestatore aveva dedotto una collocazione temporale della sua prestazione che, per unilaterale decisione datoriale, era costante e uniforme per tutti i giorni della settimana, salvo un giorno di riposo, peraltro indicato come “variabile”. La suddetta collocazione temporale, quindi, all’evidenza, era del tutto diversa rispetto a quella concordata, e idonea, perciò, ad alterare la programmabilità del tempo libero restante al lavoratore disabile, in funzione delle rilevanti esigenze sopra evidenziate.

Secondo i giudici, “tali precise allegazioni dell’istante, incontestate in sé, circa il danno subito, se dimostrato il suo assunto circa l’effettiva collocazione temporale della prestazione, erano più che sufficienti anche ai fini della richiesta liquidazione equitativa del danno stesso”.

Sentenza:

CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 novembre 2024, n. 28657

Lavoro – Nullità del termine – Contratto di lavoro a tempo determinato – Conversione in contratto a tempo indeterminato – CCNL Terziario – Corrispondenza tra mansioni prestate e inquadramento contrattuale – Certezza della sussistenza del danno – Clausole elastiche – Lavoratore disabile – Accoglimento parziale

Fatti di causa

1.Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di L’Aquila respingeva l’appello proposto da R.F. contro la sentenza del Tribunale di Chieti n. 20/2019, la quale aveva rigettato il suo ricorso, volto ad ottenere la declaratoria di nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro a tempo determinato e parziale sin dall’inizio del rapporto con conversione in contratto a tempo indeterminato, con condanna della convenuta E.L. s.p.a. al ripristino del rapporto con mansioni compatibili con il suo stato fisico, nonché alla corresponsione dell’indennità di legge pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto o al diverso importo ritenuto di giustizia, nonché al risarcimento dei danni pari a sei mensilità di retribuzione globale di fatto, o al diverso importo equitativamente determinato, ai sensi dell’art. 10 d.lgs. n. 81/2015 per essere stato impiegato in mansioni diverse ed incompatibili con il suo stato di salute, essendo stato avviato al lavoro quale invalido giusta nulla osta della Provincia di Chieti con determinate prescrizioni.

2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale considerava sicuramente infondato il primo motivo d’appello con il quale il lavoratore aveva lamentato il difetto di corrispondenza tra l’inquadramento nel 5° livello e le mansioni effettivamente svolte, ritenute da lui rappresentare “quasi esclusivamente mansioni di 6° o soprattutto di 7° livello (pulizia dei locali)”.

2.1. Giudicava, altresì, infondato il secondo motivo di gravame, a mezzo del quale l’appellante censurava la decisione di primo grado nella parte in cui aveva ritenuto non raggiunta la prova certa in ordine all’effettiva adibizione a mansioni violatrici delle prescrizioni poste a tutela della sua salute, ed aveva ritenuto più attendibili le deposizioni rese dai testi, avvinti da metus datoriale.

2.2. Reputava, ancora, infondato il terzo motivo d’appello, con il quale si censurava la sentenza di prime cure nella parte in cui aveva affermato che anche in ipotesi di ricorrenza delle lamentate violazioni, per l’adibizione in mansioni incompatibili con il suo stato di salute, non sarebbero stati comunque applicabili né la conversione in rapporto a tempo indeterminato né l’indennità di cui all’art. 32 L. n. 183/2010, senza fornire un comprensibile motivo di detta eventuale non applicabilità.

2.3. Riteneva, inoltre, infondato il quarto motivo d’appello, in cui si censurava la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva escluso che l’attore avesse allegato ed offerto di provare la unilaterale modifica delle collocazioni temporali del rapporto previste nel contratto individuale, nonché il tipo e l’entità dei pregiudizi determinati da tale modifica, quando, per contro, non solo la controparte non aveva contestato l’allegazione relativa all’effettivo orario osservato (dalle ore 17,00 alle ore 21,00 di tutti i giorni della settimana, salvo un giorno di riposo variabile), ma egli aveva formulato apposito capitolo di prova in tal senso, peraltro evidenziando il pregiudizio subito per avere il datore di lavoro compromesso il suo spazio di libertà al di fuori delle coordinate temporali contrattualmente predeterminate.

2.4. Infine, la Corte perveniva alla medesima conclusione con riguardo alla censura sottesa al quinto motivo di gravame, che si fondava sulla asserita violazione dell’art. 11 L. 68/1999 per la mancanza nella specie della convenzione ivi prevista.

3. Avverso tale decisione, R.F. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad otto motivi.

4. La società intimata ha resistito con controricorso.

5. All’esito dell’adunanza camerale del 7.2.2024 è stata fissata pubblica udienza.

6. Il P.M. ha concluso per il rigetto del primo e del settimo motivo di ricorso e per l’inammissibilità del ricorso per il resto, come già richiesto in memoria depositata.

7. Anche il ricorrente ha depositato memoria.

Ragioni della decisione

1.Con un primo motivo, il ricorrente denuncia “Violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 in relazione all’art. 96 ccnl Terziario sub “V livello n. 23): Ausiliario addetto alla vendita” e agli artt. 1362 e seguenti c.c.”. Si duole del fatto che il giudice d’appello non ha correttamente interpretato (ed ha falsamente applicato) vuoi il c.c.n.l. Terziario, vuoi il contratto di assunzione del ricorrente.

2. Con un secondo motivo denuncia “Violazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 in relazione all’art. 132 c.p.c. e all’art. 2103 c.c.”. Si duole del fatto che il giudice d’appello ha omesso l’esame su un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (ossia, l’essere stato il ricorrente adibito a mansioni diverse rispetto a quelle di cui al V livello del c.c.n.l. terziario).

3. Con un terzo motivo denuncia “Violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 in relazione all’art. 1 comma 4 della L. 68/1999 che richiama l’art. 4 della L. 104/1999 (ndrart. 4 della L. 104/1992) , agli artt. 41 e 41 del D.lgs. 81/2008 e all’art. 10 L. 68/1999”.

Secondo il ricorrente, il giudice di appello non ha tenuto in debita considerazione il nulla osta rilasciato dalla Provincia di Chieti in data 17.10.2016 (allegato sub I.B2), ritenendo, in modo errato, il prevalere delle prescrizioni del medico aziendale rispetto a quelle impartite dalla Commissione Medica di cui all’art. 1 comma 4 L. 68/1999 (che richiama l’art. 4 della L. 104/1992).

4. Con un quarto motivo denuncia “Violazione dell’art. 360 comma 1 n. 4 in relazione all’art. 116 c.p.c. e in forza dell’art. 1 comma 4 della L. 68/1999”. Si duole del fatto che il giudice d’appello non ha considerato che il nulla osta di cui al precedente motivo costituisse prova legale.

5. Con un quinto motivo denuncia “Violazione dell’art. 360 comma 1 n. 5 in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 10 L. 68/1999”. Si duole del fatto che il giudice d’appello ha omesso l’esame su un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (ossia, l’essere stato il ricorrente applicato nella movimentazione di carichi, sebbene non potesse esserlo, ed adibito a mansioni che lo costringevano a posture incongrue, movimenti ripetuti degli arti superiori e sbalzi di microclima, sebbene il medico aziendale avesse allertato il datore di lavoro di evitarlo perché rischioso per la salute dell’invalido).

6. Con il sesto motivo denuncia “Violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 in relazione agli artt. 1419, 1339, 2013 c.c., 10 L. 68/1999, 32 L. 183/2010, 28 d.lgs. 81/2015”.

Si duole del fatto che il giudice d’appello ha erroneamente escluso la violazione dell’art. 2103 c.c. e/o dell’art. 10 L. 68/1999 potesse determinare la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato (ai sensi dell’art. 32 L. 183/2010 o ex art. 1419, 2° co., c.c.) e che potesse legittimare il ripristino del rapporto ed il riconoscimento della richiesta indennità risarcitoria di cui all’art. 32 L. 183/10 (ora ex art. 28 d.lgs. 81/2015).

7. Con il settimo motivo denuncia “Violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 in relazione agli artt. 5 e 10 d.lgs. 81/2015, agli artt. 432 e 1226 e 2056 c.c., all’art. 113 e 114 c.p.c.”.

Si duole del fatto che il giudice di appello ha erroneamente ritenuto che l’indennità di natura equitativa di cui all’art. 10 d.lgs. 81/2015 necessitasse della prova dell’esistenza del danno conseguito alla modifica unilaterale dell’orario da parte del datore di lavoro, e della prova al riguardo della difficoltà oggettiva di quantificare il danno.

8. Con l’ottavo motivo denuncia “Violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 in relazione all’art. 11 L. 68/1999”. Si duole del fatto che il giudice dell’appello ha erroneamente escluso che per assumere il ricorrente disabile fosse necessaria la convenzione di cui all’art. 11 L. 68/1999, così negandogli le medesime conseguenze ripristinatorie a tempo indeterminato e risarcitorie di cui al sesto motivo che precede.

9. Prima di esaminare i singoli motivi di ricorso, occorre dare conto che il ricorrente ha premesso “che le sentenze di primo e secondo grado poggiano su ragioni di fatto diverse: a differenza della seconda sentenza, infatti, quella di primo grado non ha affatto valutato l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse rispetto a quelle di cui al V livello del ccnl Terziario”.

9.1. Tale preliminare rilievo non è, però, condivisibile.

Invero, la Corte di merito nel concludere, in base alla propria disamina delle risultanze processuali, che “il ruolo ricoperto dal R. nell’organizzazione del lavoro dell’impresa” era “perfettamente conforme sia alla categoria (operaio) sia alla qualifica ed alle mansioni (di ausiliario addetto alla vendita inquadrato al livello V del CCNL di settore) di inquadramento”, aveva aggiunto “come rilevato anche dal primo giudice che – sia pure con riferimento alle mansioni esigibili sulla base del nulla osta concesso dalla Provincia ha, del tutto condivisibilmente, dichiarato la piena conformità delle mansioni espletate dal lavoratore nel corso della prestazione lavorativa con quelle di inquadramento” (così alla fine della facciata 4 dell’impugnata sentenza).

9.2. Per conseguenza, diversamente da quanto assume il ricorrente, il quale non deduce ulteriori difformità nelle decisioni di merito differenti da quella ora esaminata e qui ritenuta insussistente, si è in presenza di c.d. “doppia conforme”, sicché opera la preclusione di cui ai commi quarto e quinto dell’art. 348 ter c.p.c.

9.3. E pertanto risultano inammissibili il secondo ed il quinto motivo di ricorso dove fanno riferimento all’ipotesi di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c.

9.4. Del resto, il secondo motivo di ricorso sarebbe comunque ex se inammissibile perché “la corrispondenza tra mansioni prestate e inquadramento contrattuale”, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, non costituisce un “fatto storico”, bensì un’operazione di sussunzione delle mansioni prestate in un determinato inquadramento contrattuale.

10. Nello stesso motivo si assume anche che “Dalle mansioni riportate in sentenza di certo non si comprende quali sarebbero le “ragioni di fatto e di diritto”, di cui al n. 4 dell’art. 132 c.p.c., che hanno indotto la Corte Territoriale a decidere in tal senso”.

10.1. Tale anomalia motivazionale, tuttavia, non è ricondotta dalla parte all’ipotesi di cui all’art. 360, comma primo, n. 4), c.p.c., né il ricorrente denuncia per tale ragione la nullità dell’impugnata sentenza.

11. In ogni caso, non risponde al vero che “in sentenza non vi è un minimo di specificità dei motivi per i quali il ricorrente avrebbe svolto mansioni di V livello, vengono semplicemente riportate le deposizioni testimoniali e senza un minimo di spiegazione viene concluso che al ricorrente sono state attribuite mansioni di V livello”.

11.1. La Corte territoriale, infatti, ha premesso: <A) Che con l’atto introduttivo il R. ha specificato le mansioni cui sarebbe stato impiegato deducendo che “portava la merce che era contenuta in scatoloni … per caricarli sul transpallet, per poi porli presso gli scaffali ove sistemava la merce … piegava i cartoni degli scatoloni svuotati e li riponeva in un altro scatolone …per essere portato e smaltito in uno speciale macchinario, puliva i pavimenti dei locali …” B) Che dal contratto di lavoro il R. risulta essere stato assunto “con la qualifica di operaio e mansioni di ausiliario addetto alla vendita inquadrato al livello V del vigente CCNL applicato” e che le mansioni risultano essere indicate come: “ausilio nella gestione dei reparti presenti nel punto vendita; sistemazione delle merci, rapporti con la clientela, pulizia dei locali”; C) Che nel livello V del CCNL di settore rientrano i “lavoratori che eseguono lavori qualificati per la cui esecuzione sono richieste normali conoscenze e adeguate capacità tecnico pratiche, comunque conseguite” tra cui “l’addetto alle operazioni ausiliarie alla vendita nelle aziende a integrale libero servizio (grandi magazzini, magazzini a prezzo unico, supermercati ed esercizi similari)”>.

11.2. Tanto premesso, la Corte ha dato “atto della perfetta aderenza delle mansioni svolte con quelle di inquadramento, richiamando estesamente le parti salienti delle deposizioni di tutti i testimoni” (cfr. in extenso facciate 3 e 4 della sua sentenza), concludendo che: “Si tratta, infatti, di una serie di attività … che descrivono, nel loro insieme, il ruolo ricoperto dal R. nell’organizzazione del lavoro dell’impresa come perfettamente conforme sia alla categoria (operaio) sia alla qualifica ed alle mansioni (di ausiliario addetto alla vendita inquadrato al livello V del CCNL di settore) di inquadramento”.

12. Non si è, perciò, certamente in presenza di una “motivazione apparente”.

13. Il primo motivo, che attiene al medesimo tema, è privo di fondamento.

13.1. L’art. 96 del CCNL Terziario, cui si riferisce il ricorrente (che è il CCNL stipulato l’1.7.2013 per un triennio), sotto la rubrica “Classificazione”, ordina il personale secondo molteplici livelli, partendo dal I, il più elevato, e per ognuno di tali livelli, oltre a dettare la relativa declaratoria generale, elenca singole, ma plurime, figure professionali, descritte più o meno specificamente.

Così è anche per le descrittive del V livello, in cui si elencano ben 27 figure, e in cui al n. 28) si contemplano, analogamente peraltro a quanto previsto per i precedenti livelli, pure “altre qualifiche di valore equivalente non espressamente comprese nella predetta elencazione”.

13.2. Orbene, il ricorrente deduce essenzialmente che al n. 23 del livello V era prevista (anche) la figura o qualifica, che dir si voglia, di “addetto all’insieme delle operazioni ausiliarie alla vendita, intendendosi per tale l’esercizio promiscuo delle funzioni di incasso e relativa registrazione, di preparazione delle confezioni, di prezzatura, di marcatura, di segnalazione dello scoperto dei banchi, di rifornimento degli stessi, di movimentazione fisica delle merci, per i primi 18 mesi di servizio”.

Ed evidenzia che “Dalle risultanze istruttorie nella medesima sentenza risulta che il ricorrente non si è mai occupato di incasso, di relativa registrazione, di preparazione delle confezioni, di prezzatura, di marcatura, di segnalazione dello scoperto dei banchi, né ha mai avuto rapporti con la clientela (come specificato nel contratto individuale), né la sua figura professionale è citata tra le 32 di cui al V livello”.

13.3. Tali deduzioni non colgono all’evidenza nel segno.

Correttamente, infatti, la Corte territoriale, delle varie figure previste nel V livello, ha preso in considerazione la prima delle due ivi descritte al già menzionato n. 23), ossia quella dell’ “addetto alle operazioni ausiliarie alla vendita nelle aziende ad integrale libero servizio (grandi magazzini, magazzini a prezzo unico, supermercati ed esercizi similari)”.

Come, infatti, deduce lo stesso ricorrente, risulta dal contratto individuale di lavoro, ed è stato considerato anche dalla stessa Corte, il lavoratore era stato assunto “con la qualifica di operaio e mansioni di ausiliario addetto alla vendita inquadrato al livello 5° del vigente C.C.N.L.”, e con mansioni, “anche in via non esaustiva”, di: “Ausilio nella gestione dei reparti presenti nel punto vendita; sistemazione delle merci; rapporti con la clientela; pulizia dei locali”.

Non gli era stata, perciò, riconosciuta la distinta qualifica di “addetto all’insieme delle operazioni ausiliarie alla vendita”, nei sensi specificati nella declaratoria particolare; né, comunque, le mansioni assegnategli comprendevano l’insieme di tali operazioni.

13.4. In base, poi, al riesame delle testimonianze raccolte in prime cure, la Corte distrettuale ha concluso nel senso della piena conformità dell’attività svolta dal lavoratore “sia alla categoria (operaio) sia alla qualifica ed alle mansioni (di ausiliario addetto alla vendita inquadrato al livello V del CCNL di settore) di inquadramento”.

13.5. L’operazione di sussunzione della Corte distrettuale, che il ricorrente contesta, è quindi incensurabile, fondandosi su una piana interpretazione sia della norma contrattuale collettiva da considerare che del contenuto del contratto individuale di lavoro.

E’, infatti, meramente assertivo l’assunto del ricorrente secondo il quale la comune intenzione delle parti “era indubitabilmente quella di far svolgere all’assumendo, ai sensi dell’art. 1364 c.c., l’insieme delle mansioni previste nel V livello”.

14. In aggiunta a quanto già detto all’inizio, anche nel quinto motivo si fa valere l’omesso esame, non di un fatto storico, ma – come già emerge dal nucleo di tale censura sopra riassunto – di un insieme di fatti e deduzioni.

14.1. In ogni caso, nel disattendere il secondo motivo d’appello del lavoratore, la Corte territoriale si era compiutamente espressa anche su tale tema.

Più nello specifico, aveva anzitutto richiamato integralmente la parte di motivazione della sentenza del Tribunale, in cui questo aveva spiegato perché non aveva ritenuto “raggiunta una prova univoca in ordine all’effettiva adibizione del ricorrente a mansioni in violazione delle prescrizioni poste a tutela della sua salute”.

E la Corte aveva creduto condivisibile tale conclusione “cui il Giudice di primo grado è pervenuto esaminando scrupolosamente le prove acquisite e, comunque, tenendo conto di quanto riferito da ciascuno dei testi escussi, al cui contenuto si è fatto specifico riferimento al capo che precede”, perché si trattava “di prestazione lavorativa con carichi di lavoro moderati, compatibili con le condizioni fisiche del R., tenuto conto anche della prescrizione del medico competente che aveva vietato la movimentazione manuale di carichi di peso uguale o superiore a 10 Kg” (cfr. facciata 5 dell’impugnata sentenza).

15. Il terzo ed il quarto motivo possono essere esaminati congiuntamente, essendo all’evidenza connessi.

15.1. Essi sono entrambi inammissibili in una duplice prospettiva.

15.2. Per costante orientamento di legittimità, i motivi di ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado del giudizio, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (in tal senso, ex plurimis, Cass., sez. I, 2.9.2021, n. 23792).

15.3. Ebbene, le questioni in fatto e in diritto che il ricorrente pone in tali due censure non sono state assolutamente trattate nella decisione qui gravata, in particolare rispetto alle diverse norme di diritto ora, per il ricorrente, asseritamente violate; non risulta peraltro che tali questioni fossero state poste in qualcuno dei diversi motivi d’appello.

16. Per altro verso, da un lato, la Corte di merito non ha affermato “il prevalere delle prescrizioni del medico aziendale rispetto a quelle impartite dalla Commissione Medica di cui all’art. 1, comma 4 della L. 68/1999”, e, dall’altro, come si è già visto, ha condiviso, in base anzitutto a quanto riferito dai testi, già in precedenza riconsiderato dalla stessa Corte, il mancato raggiungimento di “una prova univoca in ordine all’effettiva adibizione del ricorrente in mansioni in violazione delle prescrizioni poste a tutela della sua salute”.

Il terzo ed il quarto motivo, pertanto, non sono comunque pertinenti rispetto all’effettiva ratio decidendi della Corte territoriale sul tema.

17. Infondato è il sesto motivo di ricorso.

17.1. Il ricorrente, infatti, non considera che la reiezione del suo terzo motivo d’appello circa l’inapplicabilità, da lui contestata, dei rimedi della conversione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato e dell’indennità risarcitoria prevista dall’art. 32 L. 183/2010, si fondava in realtà su una duplice argomentazione.

In particolare, la Corte d’appello aveva anzitutto ribadito tale inapplicabilità “per i motivi sopra esposti” (cfr. alla fine della facciata 5), vale a dire, per la confermata insussistenza di “ciascuna delle lamentate violazioni”; ossia, l’adibizione, almeno prevalente, in mansioni proprie di un livello contrattuale inferiore a quello di inquadramento e l’adibizione a mansioni in violazione delle prescrizioni poste a tutela della sua salute, quale lavoratore invalido.

17.2. Sul piano strettamente normativo, poi, la Corte di merito, esaminate le previsioni applicabili, aveva escluso “che l’inosservanza dell’art. 10, comma 2, della legge n. 68/1999 – la quale riconosce apposite forme di tutela per i lavoratori avviati obbligatoriamente, siano essi assunti con contratto a tempo indeterminato o a termine per il caso di inosservanza dell’anzidetta previsione – possa far pervenire alla richiesta trasformazione del rapporto intercorso da tempo determinato a tempo indeterminato e legittimare il riconoscimento della pure richiesta l’indennità risarcitoria di cui all’art. 32 L. 183/10”.

17.3. Nel caso di specie la Corte di merito (come il primo giudice), sia pure per insufficienza della relativa prova, aveva ritenuto non dimostrato che il lavoratore fosse stato impiegato di fatto in mansioni non compatibili con le sue condizioni fisiche, con ciò escludendo la violazione dell’art. 10, comma 2, L. 68/1999 (che recita: “Il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni”).

18. E’ invece fondato il settimo motivo nei termini che si passa ad illustrare.

18.1. In esso premette il ricorrente che la “sentenza di secondo grado ha fondato la decisione sul difetto di prova dell’esistenza del danno che è conseguito alla modifica unilaterale dell’orario da parte del datore di lavoro, e sul difetto di allegazioni al riguardo della difficoltà oggettiva di quantificare il danno”.

18.2. Sul punto la Corte di merito ha considerato <che con l’atto introduttivo era stato formulato apposito capitolo di prova del seguente tenore letterale: “il ricorrente ha sempre lavorato dalle ore 17,00 alle ore 21.00 di tutti i giorni della settimana, salvo un giorno di riposo variabile”>, ma ha rilevato <che l’appellante nulla aveva dedotto in relazione al danno che avrebbe subito dalla diversa collocazione temporale del rapporto di lavoro risultante dal contratto individuale (lunedì 16.00-20.00; martedì 11.00-15.00; mercoledì 7.00-11.00; giovedì/venerdì 8.00.12.00, sabato 17.00-21.00; domenica 17.00-21.00)>.

Ha, in particolare, notato che il lavoratore si era limitato a dedurre che il datore di lavoro – per aver unilateralmente modificato dette collocazioni temporali – “ai sensi dell’art. 10 del Dlgs 81/2015 dev’essere condannato al risarcimento dei danni equitativamente determinato che … salva ogni diversa quantificazione … di giustizia, potrebbe ammontare ad un importo pari a sei mensilità di retribuzione globale di fatto (cioè alla durata del rapporto di lavoro)”.

Dopo aver ricordato taluni principi in tema di liquidazione equitativa del danno, la Corte ha concluso che: “Il presupposto essenziale è, perciò, la certezza della sussistenza del danno (an), potendo ricadere l’incertezza solo sull’entità del pregiudizio (quantum), che può implicare per il danneggiato una assoluta impossibilità o una difficoltà oggettiva di provarne l’esatto ammontare, presupposto nella fattispecie concreta neppure allegato”.

18.3. E’ chiaro, quindi, che la stessa Corte ha ritenuto che il ricorrente nemmeno avesse allegato (prima che dimostrato) la certezza della sussistenza stessa del danno in ipotesi da liquidare equitativamente.

18.4. Ebbene, il comma 3 dell’art. 10 d.lgs. n. 81/2015, richiamato dal ricorrente, recita: “Lo svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche senza il rispetto delle condizioni, delle modalità e dei limiti previsti dalla legge o dai contratti collettivi comporta il diritto del lavoratore, in aggiunta alla retribuzione dovuta, a un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno” (il secondo periodo del comma 2 precedente, infatti, attiene all’omissione riguardante la collocazione temporale dell’orario nel contratto di lavoro, ipotesi che all’evidenza non ricorre nella fattispecie).

E le “clausole elastiche” cui si riferisce tale norma sono specificate dall’art. 6, comma 4, dello stesso d.lgs. n. 81/2015, ossia, sono quelle “relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa ovvero relative alla variazione in aumento della sua durata”.

Nel caso di specie, però, non viene in considerazione “lo svolgimento di prestazioni in esecuzione di clausole elastiche” nel senso testé chiarito, in spregio di qualche previsione collettiva o legale, perché il lavoratore aveva piuttosto allegato che la datrice di lavoro aveva unilateralmente modificato la collocazione temporale della sua prestazione lavorativa rispetto a quanto indicato nel contratto individuale.

19. Ebbene, ritiene il Collegio che un danno che sia derivato a un lavoratore assunto con contratto di lavoro a tempo parziale in base alla normativa sull’avviamento dei disabili ex lege n. 68/1999, a causa di una tale modifica della collocazione temporale della prestazione in assenza di ius variandi in capo al datore di lavoro, sia certamente risarcibile, ma che esso dev’essere anzitutto allegato, prima che provato, dal lavoratore.

19.1. Più in particolare, nel regime anteriore al d.lgs. n. 81/2015, questa Corte aveva ritenuto che le cosiddette clausole elastiche, che consentono al datore di lavoro di richiedere <a comando> la prestazione lavorativa dedotta in un contratto part time, sono illegittime, atteso che l’esigenza della previa pattuizione bilaterale della riduzione di orario comporta – stante la ratio dell’art. 5 della legge n. 863 del 1984 – che, se le parti concordano per un orario giornaliero inferiore a quello ordinario, di tale orario debba essere determinata la collocazione nell’arco della giornata e che, se parimenti le parti convengono che l’attività debba svolgersi solo in alcuni giorni della settimana o del mese, anche la distribuzione di tali giornate lavorative sia previamente stabilita (in tal senso Cass., sez. lav., 23.1.2009, n. 1721; id., sez. lav., 4.12.2014, n. 25680).

Del resto, il vigente art. 5 d.lgs. n. 81/2015, al comma 2, ha confermato che: “Nel contratto di lavoro a tempo parziale è contenuta puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno”.

Questa Corte, inoltre, aveva ritenuto che, nel contratto di lavoro part time – che con il contratto di lavoro a tempo pieno ha in comune la causa giuridica tipica (cioè lo scambio di lavoro-retribuzione), differenziandosene soltanto per la riduzione quantitativa della prestazione lavorativa (e, correlativamente, della retribuzione) – il carattere necessariamente bilaterale della volontà in ordine a tale riduzione nonché della collocazione della prestazione lavorativa in un determinato orario (reputato dalle parti come il più corrispondente ai propri interessi) comporta che ogni modifica di detto orario non possa essere attuata unilateralmente dal datore di lavoro in forza del suo potere di organizzazione dell’attività aziendale, essendo invece necessario il mutuo consenso di entrambe le parti, salvo che nel contratto individuale l’orario della prestazione lavorativa sia determinato soltanto nella durata senza alcuna specificazione della sua collocazione temporale (cosiddette clausole elastiche) (in tal senso Cass., sez. lav., 13.9.2003, n. 13470; id., sez. lav., 17.3.2003, n. 3898, aveva affermato che l’orario di lavoro pattuito nel contratto individuale di lavoro a tempo parziale non può essere modificato unilateralmente dal datore di lavoro, neanche se la modifica sia stata prevista da accordi collettivi col sindacato cui è iscritto il singolo lavoratore interessato).

Era stato, peraltro, da tempo messo in luce che, in tema di orario di lavoro, i limiti allo ius variandi dell’imprenditore nei contratti di lavoro part time – nei quali la programmabilità del tempo libero (eventualmente in funzione dello svolgimento di un’ulteriore attività lavorativa) assume carattere essenziale, che giustifica l’immodificabilità dell’orario da parte datoriale – non sono estensibili al contratto di lavoro a tempo pieno, nel quale un’eguale tutela del tempo libero del lavoratore si tradurrebbe nella negazione del diritto dell’imprenditore di organizzare l’attività lavorativa, diritto che può subire limiti solo in dipendenza di accordi che lo vincolino o lo condizionino la particolare procedura (Cass., sez. lav., 16.4.1993, n. 4507, richiamata al § 6.1. di Cass. n. 31957/2019, proprio per evidenziare il diverso regime in proposito valevole per il lavoro a tempo pieno).

19.2. Ritiene, allora, il Collegio che tutti tali principi di diritto debbano essere confermati nella vigenza della disciplina del lavoro a tempo parziale di cui agli artt. 4-12 d.lgs. n. 81/2015, e a maggior ragione per i lavoratori assunti a tempo parziale in base alle “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” di cui alla l. n. 68/1999.

Rispetto, infatti, ai lavoratori disabili assunti a tempo parziale una determinata collocazione temporale dell’orario, che sia stata concordata con il datore di lavoro nel contratto individuale di lavoro (come richiede l’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 81/2015), in una clausola anelastica, rende programmabile un altrettanto determinato tempo libero, in funzione anche di un più pronto recupero delle energie psico-fisiche del prestatore di lavoro, ovviamente più pregnante in tesi nel caso di sua disabilità, se non di cure e terapie che costui debba seguire, nello “spazio di libera disponibilità del proprio tempo di vita” (cfr. Corte cost. n. 210/1992, che aveva evocato il ricorrente).

E tanto, a sua volta, risponde alla regola generale, secondo la quale: “Il datore di lavoro non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni” (art. 10, comma 2, l. n. 68/1999).

Invero, anche una collocazione temporale della prestazione del lavoratore disabile assunto part time, differente da quella indicata e concordata nel contratto individuale di lavoro, può risultare incompatibile con le sue minorazioni nei sensi sopra indicati.

20. Tutto ciò considerato, l’unilaterale modifica della pattuita collocazione temporale dell’orario part time costituisce indubbiamente un inadempimento del datore di lavoro (tanto che è illegittimo il licenziamento fondato sulla mancata accettazione, da parte del dipendente, della modifica datoriale dell’orario di lavoro part-time: cfr. Cass., sez. lav., 30.10.2023, n. 30093).

21. Orbene, alla luce di tali principi, erroneamente la Corte territoriale ha considerato che il lavoratore non avesse neppure allegato la sussistenza della certezza del danno (in ipotesi da risarcire in via equitativa).

Invero, in primo luogo l’attuale ricorrente aveva fatto valere la propria condizione di lavoratore disabile e, come tale, assunto dalla datrice di lavoro (il che costituisce dato pacifico, oltre che documentato, in causa, e già accertato nei gradi di merito).

IL LAVORATORE Aveva, altresì, allegato, come si è visto, una ben precisa collocazione temporale (articolata su base settimanale) dell’orario part time, concordata in un contratto individuale di lavoro che non contemplava in proposito clausole c.d. elastiche (nei sensi sopra specificati), ossia, tali, cioè, da consentire alla datrice di lavoro di variare la “collazione temporale della prestazione lavorativa” (art. 6, comma 4, d.lgs. n. 81/2015).

A fronte di tale rigida clausola apposita, infine, il lavoratore aveva dedotto e chiesto di provare una collocazione temporale della sua prestazione – per unilaterale decisione datoriale – costante (“sempre” è stato specificato nel capitolo di prova) e praticamente uniforme per tutti i giorni della settimana, salvo un giorno di riposo, peraltro, indicato come “variabile”; una collocazione temporale, quindi, all’evidenza del tutto diversa rispetto a quella concordata, e tale, perciò, da alterare la programmabilità del tempo libero restante al lavoratore disabile, in funzione delle rilevanti esigenze su illustrate.

E tanto per un rapporto lavorativo la cui complessiva durata (dall’1.12.2016 al 31.5.2017) pure è stata allegata (e risulta incontestata).

22. Pertanto, a loro volta, tali precise allegazioni dell’istante, incontestate in sé, circa il danno subito, se dimostrato il suo assunto circa l’effettiva collocazione temporale della prestazione, erano più che sufficienti anche ai fini della richiesta liquidazione equitativa del danno stesso.

23. E’ infine infondato l’ottavo motivo.

23.1. In esso il ricorrente continua a riferirsi a Cass. 17867/2016.

In proposito, già la Corte di merito aveva osservato che il richiamo a detta decisione di legittimità da parte dell’allora appellante <non è conferente in quanto detta sentenza nulla dice circa la necessità o meno della stipula di Convenzioni di cui all’art. 68/99 per l’assunzione di personale disabile a tempo determinato, limitandosi a riconoscere l’applicabilità della normativa sui contratti a termine (d.lgs. 368/01) anche in ipotesi di assunzioni cd. “obbligatorie”, affermando il seguente principio di diritto “in caso di assunzione a tempo determinato di un lavoratore disabile ex art. 11 L. n. 68/1999 è richiesta l’indicazione nel contratto di lavoro delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificano l’apposizione del termine come previsto dal regime generale di cui al D.lgs. n. 368/2001”>.

E il principio di diritto così richiamato dalla Corte di merito è effettivamente quello enunciato in Cass. n. 17867/2016.

Più di recente, Cass., sez. lav., 5.7.2019, n. 18192, ben tenendo conto della cit. decisione del 2016, ha affermato il seguente principio di diritto: “La stipula di contratti a tempo determinato con lavoratori disabili è legittima allorché rientrante nelle previsioni di cui alle convenzioni disciplinate dalla L. n. 68 del 1999, art. 11, volte a favorire l’inserimento lavorativo dei disabili ed a disciplinare le modalità di assunzione che il datore di lavoro si impegna ad effettuare”.

Questa seconda decisione, peraltro, atteneva a fattispecie concreta, nella quale non era più in discussione l’indicazione nel contratto di lavoro delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificavano l’apposizione del termine; e in cui nel ricorso per cassazione di soggetto disabile – in certo senso all’opposto rispetto al ricorso in esame – si contestava la compatibilità, già ritenuta dalla Corte di merito, della figura del contratto a tempo determinato con la posizione del lavoratore disabile; compatibilità, invece, confermata da questa Corte.

In tali precedenti di legittimità, comunque, non è stata affermata la necessità, oltre che dell’indicazione in contratto delle suddette ragioni, di una previa convenzione ex art. 11 L. n. 68/1999, ai fini dell’assunzione dei lavoratori disabili.

E tale necessità non risulta dal testo di tale specifica disposizione, né da altre disposizioni.

24. In definitiva, dichiarati inammissibili il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo, e rigettati il primo, il sesto e l’ottavo motivo, in accoglimento del settimo motivo, la sentenza impugnata dev’essere cassata con rinvio alla medesima Corte territoriale che, in differente composizione, oltre a regolare le spese anche del giudizio di cassazione, dovrà riesaminare il caso, limitatamente alla domanda risarcitoria involta dal settimo motivo, in base ai principi di diritto richiamati nei §§ 19-20 di questa motivazione.

P.Q.M.

Accoglie il settimo motivo di ricorso, dichiarati inammissibili il secondo, il terzo, il quarto ed il quinto motivo, e rigettati il primo, il sesto e l’ottavo motivo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di L’Aquila, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Nota a Cass. 7 novembre 2024, n. 28657