Nel comparto sanità, durante il periodo di aspettativa per malattia non retribuita (di un infermiere di ruolo) “è indubbio che il rapporto di lavoro entra in una fase di quiescenza (non matura l’anzianità di servizio), durante la quale l’unico diritto che residua in capo al lavoratore è quello alla conservazione del posto di lavoro per il periodo massimo di 18 mesi e il periodo di aspettativa è concesso dal datore di lavoro solo dopo aver vagliato preventivamente la sussistenza di condizioni di salute “particolarmente gravi” e per un periodo predeterminato (non oltre 18 mesi). I certificati medici giustificativi, pertanto, sono prodotti, come nella specie, dal lavoratore e vagliati dal datore di lavoro prima di concedere il diritto ad assentarsi dal lavoro con conservazione del posto”.
Lo afferma la Corte di Cassazione (23 ottobre 2024, n. 27446) in merito al ricorso di un’infermiera di ruolo alla quale era stato intimato il licenziamento con preavviso, a norma dell’art. 55-quater , co. 1, lett. b), del D.Lgs. n. 165/2001 per mancanza di certificazione medica nel corso dell’aspettativa per malattia. La Corte d’Appello aveva ritenuto che non vi fosse necessità che la lavoratrice (fruitrice di un’aspettativa di 18 mesi per malattia) fosse licenziata per assenza ingiustificata, per non avere comunicato al datore di lavoro la documentazione attestante il perdurare dello stato di malattia trasmettendo ulteriori certificati medici per giustificare la propria assenza. Con la conseguenza che, nella fattispecie, dovesse escludersi che la medesima fosse incorsa nell’infrazione disciplinare dell’assenza priva di valida giustificazione. Ciò, sul presupposto che durante l’aspettativa “il rapporto di lavoro entra in una fase di quiescenza (non matura l’anzianità di servizio), durante la quale l’unico diritto che residua in capo al lavoratore è quello alla conservazione del posto di lavoro per il periodo massimo di 18 mesi, per cui sarebbe contraddittorio, per il principio di sinallagmaticità del rapporto ricordato dalla parte appellante, imporre al lavoratore obblighi stringenti di adempimenti disciplinarmente rilevanti a fronte dell’assenza del diritto al pieno trattamento giuridico e al trattamento economico”.
In sintesi, i giudici, in linea con la Corte d’appello, rilevano che ai sensi del vigente ccnl comparto sanità (art. 23), l’assenza del lavoratore per malattia e per aspettativa è motivata, in entrambi i casi, dalle condizioni di salute, ma le assenze per malattia rientranti nel periodo di comporto e quelle del periodo di aspettativa sono disciplinate in modo diverso dal contratto collettivo. Infatti, durante il periodo di comporto (nonostante l’assenza dal lavoro) continua a maturare l’anzianità di servizio e il lavoratore mantiene il diritto al pagamento della retribuzione (sebbene nella minor misura prevista). Diversamente avviene nel caso di aspettativa che “per espressa previsione contrattuale interrompe la maturazione dell’anzianità e non è retribuita”. In particolare, il co.7 della norma citata prevede che: “l’assenza per malattia deve essere comunicata alla struttura di appartenenza tempestivamente e comunque all’inizio dell’orario di lavoro del giorno in cui si verifica, anche nel caso di eventuale prosecuzione dell’assenza, salvo comprovato impedimento”.
La Cassazione ribadisce altresì il principio secondo cui “nel caso di concessione di un periodo di aspettativa, successivo a quello di malattia, i limiti temporali per poter procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere ulteriormente dilatati, in modo da comprendere anche la durata dell’aspettativa” (cfr. Cass. n. 15568/2024 e n. 2794/2015).
Sentenza
CORTE DI CASSAZIONE 23 ottobre 2024, n. 27446
Svolgimento del processo
La ricorrente è stata assunta alle dipendenze dell’ARNAS “B.B.” con posizione funzionale di collaboratore professionale sanitario, infermiere di ruolo.
In data 19 aprile 2018 le è stato intimato il licenziamento con preavviso, a norma dell’art. 55-quater , comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 165/2001 , come successivamente integrato e modificato, quale sanzione adottata a norma dell’art. 13, comma 1, del CCNL 2004 e dell’art. 6 CCNL 2008.
La lavoratrice ha impugnato il licenziamento assumendo l’illegittimità, la nullità e/o l’annullabilità in quanto adottato nelle more della concessa conservazione del posto per un periodo di 18 mesi, senza retribuzione, a decorrere dal 21 settembre 2017, secondo il disposto dell’art. 23 comma 2 CCNL 1994/1997 – Comparto personale del Servizio Sanitario, e ha chiesto la declaratoria di illegittimità e/o inefficacia del licenziamento e la reintegra nel posto di lavoro a norma dell’art. 18 L. n. 300/1970 , nonché il risarcimento del danno.
Il Tribunale di Catania ha rigettato la domanda, e il rigetto è stato confermato in sede di opposizione.
La Corte d’Appello, adita in sede di reclamo, con la sentenza n. 845 del 2023, ha accolto l’appello della lavoratrice e, in riforma della sentenza di prime cure, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato, ordinando la reintegrazione della medesima nel posto di lavoro precedentemente occupato, con condanna dell’ARNAS B.B. al pagamento dell’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto nella misura di dodici mensilità, nonché al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi legali senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione.
Nella sostanza la Corte d’Appello ha ritenuto che non vi fosse necessità che la lavoratrice , trasmettesse ulteriori certificati medici per giustificare la propria assenza e che nella fattispecie deve escludersi che la medesima fosse incorsa nell’infrazione disciplinare dell’assenza priva di valida giustificazione.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre l’ARNAS “B.B.”, prospettando due motivi di ricorso, assistiti da memoria.
Resiste la lavoratrice con controricorso.
Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta con cui ha concluso per il rigetto del ricorso, come confermato in udienza pubblica.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, in riferimento all’art. 360 , primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 23, comma 2, del CCNL 01.09.1995 per i dipendenti del Comparto Sanità, anche in relazione agli obblighi dei prestatori di lavoro, di cui all’art. 13 del CCNL Sanità 2004, nonché dell’art. 6 del CCNL Sanità del 2008 e, comunque, per violazione dei principi generali in materia di assenza per malattia.
Assume la ricorrente che la sentenza della Corte d’Appello di Catania è errata perché emessa in violazione dell’art. 23 del CCNL Sanità applicabile alla fattispecie e, più nello specifico, dei principi generali in materia di attestazione e giustificazione dell’assenza per malattia.
L’UPD ha contestato alla lavoratrice di non aver comunicato alcuna attestazione di malattia a decorrere dal 06.01.2018, allorché scadeva la precedente documentazione medica relativa all’aspettativa per malattia.
Prospetta la ricorrente che il lavoratore, in ogni ipotesi di malattia, non è esentato dall’obbligo di trasmettere la documentazione attestante il perdurare e la sussistenza dello stato di malattia che giustifica la sua assenza dal posto di lavoro.
La Corte d’Appello di Catania, pur tuttavia, ha affermato erroneamente che “durante il periodo di aspettativa per malattia non retribuita è indubbio che il rapporto di lavoro entra in una fase di quiescenza (non matura l’anzianità di servizio), durante la quale l’unico diritto che residua in capo al lavoratore è quello alla conservazione del posto di lavoro per il periodo massimo di 18 mesi, per cui sarebbe contraddittorio, per il principio di sinallagmaticità del rapporto ricordato dalla parte appellante, imporre al lavoratore obblighi stringenti di adempimenti disciplinarmente rilevanti a fronte dell’assenza del diritto al pieno trattamento giuridico e al trattamento economico”.
Ciò in violazione dell’art. 23 del CCNL 1.09.1995, rubricato “Assenza per malattia”, che per il personale non dirigenziale del Comparto sanità, regolamenta l’esigenza del dipendente di non svolgere attività lavorativa per ragioni di salute distinguendo, anche ai fini della corresponsione del trattamento economico l’aspettativa dall’assenza per malattia.
Nel fissare gli adempimenti che il lavoratore è tenuto ad osservare per avvalersi dei periodi di comporto per malattia, rileva la ricorrente, la contrattazione collettiva non differenzia la situazione oggetto del primo comma dell’art. 23 rispetto a quella prevista dal successivo comma 2, ma stabilisce unitariamente (comma 7) che: “L’assenza per malattia deve essere comunicata alla struttura di appartenenza tempestivamente e comunque all’inizio dell’orario di lavoro del giorno in cui si verifica, anche nel caso di eventuale prosecuzione dell’assenza, salvo comprovato impedimento.
A fronte del quadro normativo sopra esposto, assume la ricorrente, deve escludersi che l’aspettativa non retribuita concessa per ragioni di malattia entro il tetto massimo di conservazione del posto di lavoro sottrae al datore di lavoro il potere di svolgere il controllo circa la sussistenza o meno del presupposto legittimante la sospensione dell’attività lavorativa, rimettendo alla libera determinazione del dipendente il godimento di tale periodo.
Il motivo non è fondato.
Il CCNL del Comparto sanità, pacificamente applicabile al rapporto, disciplina all’art. 23 le assenze per malattia, e al primo e secondo comma, prevede:
“1. Il dipendente non in prova, assente per malattia, ha diritto alla conservazione del posto per un periodo di diciotto mesi. Ai fini della maturazione del predetto periodo, si sommano tutte le assenze per malattia intervenute nei tre anni precedenti l’ultimo episodio morboso in corso.
2. Al lavoratore che ne faccia tempestiva richiesta prima del superamento del periodo previsto dal comma 1, può essere concesso di assentarsi per un ulteriore periodo di 18 mesi in casi particolarmente gravi ovvero di essere sottoposto all’accertamento delle sue condizioni di salute, per il tramite della azienda sanitaria locale territorialmente competente ai sensi delle vigenti disposizioni, al fine di stabilire la sussistenza di eventuali cause di assoluta e permanente in idoneità fisica a svolgere qualsiasi proficuo lavoro”.
I periodi di assenza per malattia, salvo quelli previsti dal comma 2 del presente articolo, non interrompono la maturazione dell’anzianità di servizio a tutti gli effetti.
L’assenza del lavoratore in entrambi i casi è motivata dalle condizioni di salute, ma le assenze per malattia rientranti nel periodo di comporto e quelle del periodo di aspettativa sono disciplinate in modo diverso dal contratto collettivo.
Mentre, infatti, durante il periodo di comporto, nonostante l’assenza dal lavoro, continua a maturare l’anzianità di servizio e il lavoratore mantiene il diritto al pagamento della retribuzione – benché nella minor misura prevista – diversamente avviene nel caso di aspettativa, che per espressa previsione contrattuale interrompe la maturazione dell’anzianità e non è retribuita.
I commi 7, 8 e 9 dell’art. 23, a loro volta prevedono: “7. L’assenza per malattia deve essere comunicata alla struttura di appartenenza tempestivamente e comunque all’inizio dell’orario di lavoro del giorno in cui si verifica, anche nel caso di eventuale prosecuzione dell’assenza, salvo comprovato impedimento.
Il dipendente è tenuto a recapitare o spedire a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento il certificato medico di giustificazione dell’assenza entro i tre giorni successivi all’inizio della malattia o alla eventuale prosecuzione della stessa. Qualora tale termine scada in giorno festivo esso è prorogato al primo giorno lavorativo successivo.
L’azienda o l’ente dispone il controllo della malattia ai sensi delle vigenti disposizioni di legge di norma fin dal primo giorno di assenza. Come ha affermato la Corte d’Appello, la disciplina contenuta nei commi 7 e 8 è evidentemente riferita alle assenze per malattia rientranti nel periodo di comporto”.
Occorre considerare che durante il periodo di aspettativa per malattia non retribuita è indubbio che il rapporto di lavoro entra in una fase di quiescenza (non matura l’anzianità di servizio), durante la quale l’unico diritto che residua in capo al lavoratore è quello alla conservazione del posto di lavoro per il periodo massimo di 18 mesi, e il periodo di aspettativa è concesso dal datore di lavoro solo dopo aver vagliato preventivamente la sussistenza di condizioni di salute “particolarmente gravi” e per un periodo predeterminato (non oltre 18 mesi). I certificati medici giustificativi, pertanto, sono prodotti, come nella specie, dal lavoratore e vagliati dal datore di lavoro prima di concedere il diritto ad assentarsi dal lavoro con conservazione del posto.
Nel caso di specie, la Corte d’Appello ha accertato che è stata la stessa Azienda a indicare alla lavoratrice la possibilità di fruire del periodo di aspettativa non retribuita per motivi di salute, aspettativa che è stata concessa con la delibera n. 81 del 21.9.2017, nella misura massima proprio inconsiderazione delle patologie documentate (come riportato in sentenza e non specificamente contestato: “Rilevato che dalla documentazione agli atti dell’Ufficio competente si evince la particolare gravità della fattispecie in questione e che per l’effetto può essere concesso il periodo richiesto”), per cui non occorreva che la lavoratrice trasmettesse ulteriori certificati medici per giustificare “la prosecuzione” della aspettativa nel termine massimo previsto.
Nella specie, dunque è stato lo stesso provvedimento dell’amministrazione a riconoscere il diritto all’aspettativa, in presenza di particolare gravità delle condizioni di salute, e a giustificare l’assenza per tutto il periodo concesso, senza ulteriori obblighi di comunicazione a carico della lavoratrice.
Va inoltre considerato che trova applicazione il principio di carattere generale, più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui nel caso di concessione di un periodo di aspettativa, successivo a quello di malattia, i limiti temporali per poter procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere ulteriormente dilatati, in modo da comprendere anche la durata dell’aspettativa (cfr., Cass. 12233 del 2013 , 2794 del 2015 , 15568 del 2024 ).
Correttamente, quindi la Corte d’Appello ha escluso che la lavoratrice sia incorsa nell’infrazione disciplinare contestata, dell’assenza priva di valida giustificazione, perché la deliberazione di concessione dell’aspettativa non retribuita già costituiva valida giustificazione dell’assenza per il periodo di 18 mesi.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta, in riferimento all’art. 360 , primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione del CCNL Comparto sanità, degli artt. 55-quater e 55-septies del D.Lgs. n. 165/01 e ss.mm.ii., nonché dei doveri di diligenza, correttezza e buona fede.
La sentenza della Corte d’Appello di Catania, oltre che per la violazione delle pattuizioni della contrattazione collettiva, è censurata per la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165/01 , segnatamente degli artt. 55-quater e septies.
La lavoratrice, ricevuta la lettera di contestazione disciplinare (con espresso richiamo della violazione dell’art. 55-quater comma 1), lett. b), faceva pervenire in data 09.03.2018, cioè a distanza di oltre due mesi, una relazione psicologica e tre certificati medici, di talché non è stata rispettata la procedura e le prescrizioni dell’art. 55-septies del D.Lgs. n. 165/2001 , che impongono al lavoratore di giustificare l’assenza per malattia esclusivamente mediante certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale, anche in ragione degli obblighi di buona fede e correttezza.
Al rigetto del primo motivo di ricorso segue l’infondatezza del secondo motivo di ricorso, atteso che l’autorizzazione già rilasciata dall’Amministrazione riguardava l’intero periodo di aspettativa per malattia fruibile secondo le previsioni contrattuali.
Il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 , comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 , dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Nota a Cass. 23 ottobre 2024, n. 27446