Licenziamento per diffamazione su Facebook

È legittimo il licenziamento del lavoratore che abbia diffuso tramite il social network “Facebook” affermazioni diffamatorie nei confronti del datore di lavoro e dei vertici aziendali, attribuendo loro comportamenti apertamente disonorevoli ed infamanti con un “post” idoneo a qualificare in modo offensivo e dispregiativo l’azienda e altamente lesivo dell’immagine della stessa.

È quanto afferma la Corte di Cassazione (ord. 6 maggio 2024, n. 12142), la quale precisa che “in tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su “facebook” di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone” (così Cass. n. 10280/2018, in q. sito con nota di F. DURVAL; sulla potenzialità offensiva della propagazione di notizie o di dichiarazioni proprio a mezzo dei cd. social in generale, e su Facebook in particolare, v. Cass. n. 14836/2023, la quale ha evidenziato come il messaggio, una volta immesso sul web, anche su un social ad accesso circoscritto, possa “sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato, tanto che l’immissione di un “post” di contenuto denigratorio è stato ritenuto più volte idoneo ad integrare gli estremi della diffamazione”).

Diversamente, i messaggi scambiati in una “chat” privata (nella fattispecie gruppo “Facebook” di un determinato sindacato”, pur se “contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse”. Così, Cass. n. 21965/2018, annotata in q. sito da G.I. VIGLIOTTI).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE (ORD.) 6 maggio 2024, n. 12142

Considerato che:

con il primo motivo, il ricorrente – denunciando violazione degli artt. 116 c.p.c., 2712 c.c., 2719 c.c., 20, comma 1 bis, del d.lgs. n. 82 del 2005, con conseguente falsa applicazione degli artt. 5 della l. n. 604 del 1966, 18 della l. n. 300 del 1970, 2106 c.c. e 2119 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – si duole che il giudice del gravame abbia considerato fonte di prova una “copia di una fotografia”, quale è lo “screenshot”;

in particolare, evidenzia che quest’ultimo era stato riprodotto in forma cartacea senza alcuna garanzia di corrispondenza all’originale e che detta corrispondenza era stata oggetto di espresso disconoscimento, essendo stata contestata la duplice circostanza che il “post” asseritamente riprodotto dallo “screenshot” fosse stato da esso ricorrente pubblicato sulla propria pagina “Facebook” e che i testi escussi avessero potuto leggerlo direttamente, non rientrando nel gruppo dei cd. amici sul “social network”;

aggiunge, inoltre, che il menzionato documento, non soddisfacendo le condizioni ed i requisiti posti dall’art. 2712 c.c. per assurgere a “riproduzione meccanica”, poteva entrare nel processo solo ex art. 2719 c.c. quale copia fotografica di scrittura là dove ne fosse stata previamente certificata l’autenticità;

con il secondo motivo – denunziando violazione degli artt. 116 c.p.c., 2697 c.c., 15 Cost. e 51, primo comma, c.p., con conseguente falsa applicazione degli artt. 5 della l. n. 604 del 1966, 18 della l. n. 300 del 1970, 2106 c.c. e 2119 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. – lamenta che il predetto giudice non abbia accertato se il “post”, ove effettivamente pubblicato, sarebbe stato destinato ad una moltitudine indistinta di soggetti, raggiungendo una diffusione sufficiente a determinare l’effetto diffamatorio, essendo emerso dalle deposizioni testimoniali che il predetto “post” era stato pubblicato per breve periodo e reso visibile solo alla cerchia degli “amici” di esso ricorrente, nonché diffuso mediante “screenshot” contro la sua volontà; occorreva, invece, verificare se il lavoratore potesse “risultare scriminato da una norma che gli consentiva di porre in essere tale condotta escludendone l’illiceità (…). Sotto tale profilo la condotta del lavoratore risulta così tutelata e, quindi, scriminata nella fattispecie ex art. 51 c.p., dall’art. 15 della Cost. che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, fra le quali risulta inclusa anche quella che avviene attraverso i social media”.

Ritenuto che:

il primo motivo è da disattendere, poiché, in primo luogo, esso non si confronta per intero con la motivazione della sentenza impugnata, dalla quale emerge che il convincimento del giudice di merito è stato tratto dalla deposizione di due testi; in secondo luogo, esso si risolve – nella parte in cui si esclude che i predetti testi abbiano potuto leggere il “post” direttamente – in una inammissibile censura di errato apprezzamento delle prove testimoniali ad opera del giudice di merito (cfr., sul punto, tra le altre, Cass. 7/12/2017, n. 29404, ove è statuito che «Con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità»);

peraltro, poiché, in tal caso, l’asserito errore di fatto deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012 – e v., sul punto, tra le altre, Cass. 11/02/2021, n. 3572 – vi è la preclusione derivante dalla cd. “doppia conforme”, in difetto di indicazione e prova, da parte del ricorrente, che le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e del rigetto dell’appello, fossero tra loro diverse (così, di recente, Cass. 20/9/2023, n. 26934);

il secondo motivo è altresì da disattendere, poiché, da un lato, non risulta dagli atti che il ricorrente abbia sostenuto in precedenza la legittimità della propria condotta per effetto dell’operatività della scriminante dell’esercizio del diritto; dall’altro, il motivo in questione non si confronta, ancora, per intero, con la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, il cui effettivo nucleo argomentativo risulta incentrato, in adesione alla statuizione del primo giudice – peraltro non aggredita in sede di gravame – sulla circostanza che la portata diffamatoria del contenuto del “post” sarebbe rimasta intatta anche ove la diffusione dello stesso «fosse stata limitata al comunque amplissimo elenco di amicizie documentate dallo stesso ricorrente»;

del resto, in linea generale, questa Corte ha già avuto modo di precisare che «In tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su “facebook” di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone» (così Cass. 27/04/2018, n. 10280, ove è precisato, in motivazione, che, in tal caso, «il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione», venendosi a determinare «la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica»; cfr., altresì, Cass. 26/05/2023, n. 14836, ove è affermato che «la potenzialità offensiva della propalazione di notizie o di dichiarazioni proprio a mezzo dei cd. social in generale, e di Facebook in particolare, sia più volte stata affermata dalla giurisprudenza sia civile che penale di questa Corte, che ha posto in rilievo l’idoneità del messaggio, una volta immesso sul web, anche su un social ad accesso circoscritto, di sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato, tanto che l’immissione di un “post” di contenuto denigratorio è stato ritenuto più volte idoneo ad integrare gli estremi della diffamazione»);

del tutto peculiare, e non sovrapponibile a quella in esame, è la vicenda esaminata da Cass. 10/09/2018, n. 21965 (ove è statuito che «i messaggi scambiati in una “chat” privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse»), concernente un messaggio pubblicato su un gruppo “Facebook” di un determinato sindacato, e, pertanto, nell’ambito di una “chat” chiusa o privata, in relazione alla quale era stata specificamente accertata la volontà dei partecipanti, in numero necessariamente esiguo, di non diffusione all’esterno delle conversazioni ivi svolte;

segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese, liquidate come in dispositivo;

pur essendo in atti il decreto di ammissione del ricorrente “in via provvisoria” al patrocinio a spese dello Stato, va rilevato che «L’attualità dell’ammissione o meno al patrocinio a spese dello Stato non rileva direttamente ai fini della pronuncia sui presupposti per il c.d. raddoppio del contributo unificato, atteso che tale pronuncia lascia impregiudicata la questione della debenza originaria del contributo in esame, con la conseguenza che il suo raddoppio non sarà consentito qualora venga accertato, nelle sedi competenti, che fin dall’inizio ne era escluso anche il pagamento» (così, da ultimo, Cass. 12/02/2024, n. 3880);

pertanto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in euro 5.000,00 per compensi e in euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.

Nota a Cass. (ord.) 6 maggio 2024, n. 12142