Permesso ex L n. 104/1992 per assistere madre disabile

L’utilizzo del permesso ex L. n. 104/1992 per finalità diverse da quelle proprie legittima il licenziamento per giusta causa.

Il permesso ex art. 33, L. n. 104/1992 è riconosciuto al lavoratore in ragione dell’assistenza da prestare al disabile. Tale assistenza, “pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita”, tuttavia deve comunque garantire al familiare disabile bisognoso di assistenza in situazione di gravità un “intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione. Pertanto, ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo” con rilevanza ai fini disciplinari.

È quanto afferma la Corte di Cassazione (ord. 3 maggio 2024, n. 11999; v. anche. Cass. n. 30462/2023 e Cass. n. 19580/2019) la quale precisa che la prova di aver eseguito la prestazione di assistenza in un luogo diverso da quello di residenza della persona protetta grava sul lavoratore. Questi, laddove si allontani dal domicilio dell’assistito, deve dimostrare di aver comunque svolto l’attività di assistenza, eventualmente provando che gli allontanamenti erano comunque in qualche modo funzionali alla cura dell’invalido. Mentre spetta al datore di lavoro dimostrare che il dipendente in permesso non si era recato al domicilio dichiarato del disabile.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 maggio 2024, n. 11999

Lavoro – Licenziamento per giusta causa – Utilizzo del permesso ex Legge n. 104/1992 per finalità diverse da quelle proprie – Assistenza madre disabile – Abuso del diritto e violazione dei principi di correttezza e buona fede – Mancanza di nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile – Assenze dal domicilio non funzionali alla cura, pure in senso lato, dell’invalida – Legittimità del licenziamento – Rigetto

Rilevato che

1.La Corte di appello di Roma ha accolto il gravame di B.B. s.p.a. e in riforma della sentenza del Tribunale di Velletri ha rigettato la domanda di D.B. che aveva chiesto che si accertasse l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla Banca il 10 novembre 2017.

1.1. Il giudice del reclamo ha ritenuto che il ricorso, ammissibile perché sufficientemente specifiche le censure mosse alla sentenza di primo grado, fosse fondato e che il licenziamento fosse legittimo atteso che era risultato provato che il B., nei giorni in cui si trovava in permesso ex art. 33 della legge n. 104 del 1992, si era dedicato ad attività per nulla attinenti con l’assistenza alla madre inabile.

1.2. Ha sottolineato che il ricorrente non aveva contestato la legittimità formale e sostanziale dell’indagine investigativa a mezzo della quale il datore di lavoro era venuto a conoscenza dei fatti ma aveva piuttosto sostenuto che per la maggior parte del tempo aveva proprio assistito l’anziana madre che aveva trasferito presso la propria abitazione.

1.3. La Corte però ha accertato che, anche a voler ritenere provato il dedotto trasferimento presso il domicilio del figlio della madre da assistere, in ogni caso le ore dedicate ad incombenti diversi e non connessi all’assistenza erano di misura tale da giustificare gli addebiti contestati.

1.4. Nel precisare che il tempo dedicato all’assistenza non deve essere rapportato all’intera giornata ma piuttosto all’orario lavorativo, restando irrilevanti le ore serali e notturne, ha evidenziato che comunque i tempi non erano compatibili con la salvaguardia di spazi temporali adeguati perla cura di esigenze personali di vita dell’assistente.

1.5. Ha escluso che l’istruttoria avesse confermato la presenza di altri ad assistere l’invalida ed ha sottolineato che solo nel corso del giudizio e non in sede disciplinare si era allegato il trasferimento del domicilio dell’invalida deducendosi da ciò un comportamento elusivo del lavoratore idoneo a ledere la fiducia datoriale.

2. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso D.B. affidato a sette motivi. B.B. ha resistito con tempestivo controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Ritenuto che

3. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, dell’art. 2 della legge n. 604 del 1966 dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 112 c.p.c.. Ad avviso del ricorrente la Corte di merito avrebbe trascurato di considerare che la Banca aveva contestato al suo dipendente di non essersi mai recato presso l’abitazione della madre da assistere se non per un tempo molto limitato ed aveva ritenuto legittimo il recesso in base al diverso presupposto che comunque il numero di ore dedicate alla cura erano talmente poche da risultare elusive della stessa funzione dei permessi. In tal modo ad avviso del ricorrente la Corte avrebbe violato il principio di immodificabilità della contestazione di addebito da preservare anche in sede processuale.

4. Il motivo è infondato.

4.1. La Corte territoriale, lungi dal modificare l’addebito in base al quale è stato intimato il licenziamento si è limitata ad esaminare i fatti contestati, a verificare se in concreto poteva ritenersi integrata la violazione contestata (l’aver utilizzato i giorni di permesso ex legge n. 104 del 1992 per finalità diverse da quelle proprie) accertando in fatto che la condotta tenuta come risultata in concreto provata realizzava proprio la violazione contestata.

5. Anche il secondo motivo di ricorso – con il quale si deduce che la Corte avrebbe violato l’art. 132 primo comma n. 4 c.p.c. in quanto la ricostruzione fattuale operata dalla Corte confliggerebbe con quella posta a base del licenziamento – è per le medesime ragioni destituito di fondamento.

5.1. La sentenza spiega chiaramente, con motivazione tutt’altro che contraddittoria, le ragioni per le quali è stata ravvisata la violazione delle regole sui permessi ex art. 33 legge n. 104 del 1992; tiene espressamente conto delle difese del lavoratore e chiarisce le ragioni per le quali le ritiene inadeguate evidenziando che comunque la finalità cui il permesso è posto non era stata raggiunta. Si tratta di motivazione niente affatto perplessa e dubitativa e, al contrario, è la censura che propone alla Corte di adottare una diversa lettura delle risultanze istruttorie che però non è consentita, così come non è consentito censurare la motivazione al di fuori delle limitate ipotesi ammesse dall’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c. che, in seguito alla sua riformulazione, disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, ha reso non più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione. I provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall’art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c. ma tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile). In tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. (cfr. Cass. 25/09/2018 n. 22598 e 03/03/2022 n. 7090), non ravvisabile però nel caso in esame.

6. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione dell’art. 2119 c.c. in relazione all’art. 33 della legge n. 104 del 1992 laddove la Corte sostiene che il tempo dedicato all’assistenza debba coincidere con l’intero arco della giornata o quanto meno con l’orario di lavoro senza ritenere che per tale finalità possano essere considerate funzionali le attività comunque svolte nell’interesse del disabile.

6.1. A giudizio del ricorrente, infatti, la Corte, che si sarebbe basata sulla generica relazione investigativa, avrebbe trascurato di considerare che le attività che avevano allontanato il lavoratore dal suo domicilio, dove era ricoverata la madre, erano seppur latamente collegate all’assistenza di quest’ultima. Ritiene allora che, così ridimensionate, le assenze dal domicilio divenivano irrilevanti e il nesso causale tra assistenza e attività svolta dal lavoratore non sarebbe stato spezzato.

7. Il motivo non può essere accolto.

7.1. Premesso che in tema di permessi ex art. 33 della l. n. 104 del 1992, grava sul lavoratore la prova di aver eseguito la prestazione di assistenza in un luogo diverso da quello di residenza della persona protetta (Cass. 02/11/2023 n. 30462), va rilevato che il permesso ex art. 33 della legge n. 104 del 1992 è riconosciuto al lavoratore in ragione dell’assistenza da prestare al disabile. E’ rispetto ad essa che l’assenza dal lavoro deve porsi in relazione causale diretta, senza che il dato testuale e la “ratio” della norma ne consentano l’utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per la detta assistenza.

7.2. Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (cfr. Cass. n. 17698 del 2016).

7.3. E’ vero che l’assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, tuttavia essa deve comunque garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui all’art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992 un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione (si tratta di principio applicabile anche ai permessi ex art. 33 della legge n. 104 del 1992). Pertanto, ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo (cfr. Cass. 19/07/2019 n. 19580).

7.4. Premesso perciò che era onere del lavoratore dimostrare l’esistenza di un diverso domicilio dove sarebbe stata prestata la dovuta assistenza, va rilevato che comunque la Corte di merito ha fatto un passo avanti ed ha valutato la rispondenza della condotta tenuta dal lavoratore agli obblighi connessi ai permessi anche nella prospettiva del trasferimento dell’invalida al domicilio del lavoratore e, con apprezzamento di fatto a quel giudice demandato, ha ritenuto che le assenze dal domicilio non fossero funzionali alla cura, pure in senso lato, dell’invalida.

8. Con il quarto motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c. dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966 e dell’art. 2697 c.c.

8.1. Sostiene il B. che il giudice del reclamo avrebbe trascurato di considerare che, anche a prescindere dalle difese opposte in sede disciplinare, il lavoratore ben poteva in giudizio comunque dimostrare di non essere incorso nell’addebito contestatogli e posto a base del licenziamento.

Erroneamente invece la Corte aveva escluso tale possibilità di fatto invertendo l’onere della prova che era a carico del datore di lavoro.

9. Anche questo motivo non può essere accolto.

9.1. Premesso che il datore di lavoro doveva dimostrare che il dipendente in permesso non si era recato al domicilio dichiarato della madre mentre era il lavoratore che doveva dimostrare di aver comunque svolto l’attività di assistenza, eventualmente dimostrando che gli allontanamenti erano comunque in qualche modo funzionali alla cura dell’invalida, rileva il Collegio che la Corte territoriale ha correttamente applicato questi principi ed ha valutato i mutamenti della strategia difensiva verificandoli nei fatti e valutandoli oggettivamente nella prospettiva dell’accertamento della violazione contestata al lavoratore licenziato.

10. Con il quinto motivo di ricorso si deduce che in violazione dell’art. 360 primo comma n. 5 c.p.c. la Corte di merito non avrebbe tenuto conto del fatto che, pendente la domanda all’INPS per i permessi ex legge n. 104 del 1992, vi era stato un trasferimento del B. prima a Pomezia e poi, in sede di conciliazione, a Follonica. Sostiene che trascurando tali fatti sopravvenuti non sarebbero state correttamente apprezzate alcune modalità di godimento dei permessi.

11. La censura, non del tutto chiara, è inammissibile poiché nel denunciare l’omesso esame delle circostanze sopra riportate non ne chiarisce la decisività.

12. Anche il sesto motivo di ricorso con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 18 comma 4 della legge n. 300 del 1970 e ss.mm. deve essere dichiarato inammissibile. In sostanza si deduce che nell’ipotesi, pure presa in considerazione dalla Corte di merito, di un accertato trasferimento della madre del ricorrente al domicilio di quest’ultimo, si sarebbe dovuto ritenere insussistente il fatto addebitato della mancata assistenza nei giorni di permesso.

Rileva tuttavia il Collegio che con apprezzamento in fatto incensurabile, invece, la Corte ha accertato anche per tale ipotesi l’esistenza del fatto addebitato e la sua rilevanza disciplinare. Ancora una volta sotto una veste di violazione di legge si sollecita inammissibilmente una diversa ricostruzione dei fatti.

13. L’ultimo motivo di ricorso – con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. sostenendosi che la sanzione irrogata sarebbe stata sproporzionata rispetto al fatto accertato e si deduce che il giudizio di proporzionalità sarebbe stato omesso – è anch’esso infondato.

13.1. Seppur sinteticamente la Corte del reclamo ha valutato la gravità della condotta accertata e l’ha reputata idonea a ledere il vincolo fiduciario che deve sorreggere il rapporto di lavoro, ritenendo perciò proporzionata la sanzione irrogata.

Appartiene al giudice del merito la ricostruzione dei fatti ed il giudizio di sussunzione deve risultare parametrato a quegli standard valutativi della condotta accreditati nel contesto sociale e rispetto ai beni da tutelare. Ciò posto ritiene il Collegio che la Corte non sia incorsa nella violazione di legge denunciata nel valutare la gravità del comportamento addebitato, consistito in una patente violazione degli obblighi in relazione ai quali la legge accorda i permessi ai parenti di portatori di handicap. Nel far ciò ha preso in considerazione tutti i possibili profili e si è fatta carico di accertare che non vi era nessun collegamento le attività svolte all’esterno e l’assistenza anche solo indiretta dell’invalida che peraltro non sarebbe comunque risultata assicurata.

14. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in € 5.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.

Nota a Cass. (ord.) 3 maggio 2024, n. 11999