Mobbing, danno alla salute e art. 2087 c.c.

“In caso di accertata insussistenza dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro (ndr. ex art. 2087 c.c.) per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano possibili e necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, fermo restando che grava su quest’ultimo l’onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie”.

Così, la Corte di Cassazione (ord. 16 ottobre 2025, n. 27685; v. anche Cass. nn. 5061/2024; n. 3692/2023, in q. sito con nota di M.N. BETTINI e n. 33639/2022, annotata da A. TAGLIAMONTE), la quale precisa che:

  • sotto il profilo processuale, l’azione volta a censurare condotte qualificate come mobbing non preclude una valutazione del giudice in termini di accertamento della violazione dell’art. 2087 c.c. (in tal senso, Cass. n. 7844/2018, in q. sito con nota di P. Pizzuti e Cass. n. 3291/2016);
  • la Corte d’Appello di Roma, pur avendo escluso il cd. mobbing lavorativo, in difetto di “un oggettivo intento persecutorio, al fine di emarginare il lavoratore”, “tuttavia ha trascurato di considerare che ciò non è sufficiente ad escludere l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per i danni alla persona subiti dal lavoratore a causa di un inadempimento degli obblighi datoriali, anche a titolo di mera colpa”;
  • qualora il datore di lavoro tolleri indebitamente l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute secondo il paradigma di cui all’art. 2087 c.c., “è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.)” (non vi è invece responsabilità qualora i pregiudizi derivino dalla “qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili” (v. Cass. 16580/2022, cit.; Cass. n. 15159/2019, annotata in q.sito da F. DURVAL);
  • la nozione di mobbing così come quella di straining, hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici; nella sostanza servono solo ad identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (cfr. Cass. n. 33639/2022, cit. e Cass. n. 32257/ 2019);
  • l’elemento che qualifica la fattispecie ascrivibile alla nozione di mobbing consiste nell’intento persecutorio soggettivo che caratterizza la pluralità delle condotte pregiudizievoli attuate nei confronti della vittima, a prescindere dalla legittimità o illegittimità dei singoli atti (cfr. Cass. n. 16580/2022, cit.; e Cass. n. 26684/2017);
  • anche in mancanza della continuità e della pluralità delle azioni vessatorie (Cass. n.18164/2018, in q. sito con nota di M.BONI) o quando le stesse siano limitate nel numero (Cass. n. 7844/2018, cit.) si può giustificare la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c. nell’ipotesi in cui si accerti che le condotte datoriali inadempienti risultino comunque produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore. È questo il caso del c.d. straining: “una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra la continuità delle azioni vessatorie, in quanto la condotta nociva può realizzarsi anche con una unica azione isolata o, comunque, con più azioni prive di continuità che determinino, con efficienza causale, una situazione di stress lavorativo causa di gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici” (fra tante, v. Cass. n. 4664/2024 Cass. n. 3692/ 2023, cit.; Cass. n. 24339/2022).

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 ottobre 2025, n. 27685

Mobbing in ambito lavorativo – Straining – Risarcimento del danno – Condizione di salubrità e serenità delle condizioni di lavoro – Vessazione sistematica – Responsabilità datoriale – Intento persecutorio – Onere della prova

Fatti di causa

1.La Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto la domanda proposta da (…) nei confronti della (…) s.r.I. volta “al risarcimento del danno da mobbing” in relazione al “comportamento della datrice di lavoro in violazione dell’art. 2087 c.c.”, con pregiudizi alla salute e all’immagine professionale.

  1. La Corte territoriale ha premesso che il primo giudice aveva individuato la “condotta mobbizzante” nei seguenti elementi:

“a) I’ essere stato il lavoratore costretto a terminare giornalmente la prestazione a (…) dopo un decennio in cui gli era consentito di terminarla in anticipo a (…);

b) l’avergli imposto mansioni inferiori senza per altro formario alle medesime;

c) il non aver tenuto conto dei problemi di salute manifesti da cui il (…) era afflitto richiedendogli comunque di presenziare al lavoro, senza neppure appresta re alcun particolare ausilio;

d) l’avere permesso che le tendenze sessuali del ricorrente divenissero in più ripetute occasioni argomento di ludibrio sul luogo di lavoro”.

La Corte ha quindi esaminato partitamente tali condotte, sulla base dell’istruttoria espletata.

Quanto alla prima condotta ha sottolineato che lo stesso Tribuna le aveva ritenuto “il comportamento datoriale legittimo in quanto conforme agli accordi aziendali sottoscritti” e ha considerato come “l’avere la società richiesto, in occasione del nuovo Contratto Integrativo Aziendale, al lavoratore di svolgere per intero la prestazione lavorativa non integri in alcun modo un atteggiamento persecutorio”.

In ordine al comportamento descritto sub b),la corte ha condiviso col primo giudice l’esclusione dell’illegittimità di tale condotta, “atteso che le mansioni in linea con l’inquadramento contrattuale erano assolutamente prevalenti”.

In merito al “non aver tenuto conto dei problemi di salute manifesti da cui il era afflitto”, la Corte romana ha giudicato “assorbente” che il complessivo comportamento addebitato alla società, “di per sé, non assume i connotati del disegno persecutorio diretto ad emarginare il lavoratore, ben potendo essere ascritto a mera negligenza datoriale”.

Circa le condotte descritte sub d), la Corte, pur valutando tali comportamenti “decisamente censurabili e, se del caso, disciplinarmente sanzionabili”, ha così argomentato: “In primo luogo non sono risultati elementi sufficienti sulla loro frequenza, e quindi sul requisito della ‘sistematicità’.

Inoltre: non sempre detti commenti, frasi e battute sono stati posti in essere alla presenza del (…) le battute e frasi ‘stupide’ sono state, a volte, fatte in sua presenza, ma ‘sufficientemente lontano da non sentire’; in parte, tali comportamenti sono stati tenuti da lavoratori che non erano dipendenti della (…) S.r.l. benché presenti nella stanza di compensazione”.

Ha concluso nel senso che non fosse emerso che gli stessi erano stati tenuti “con un oggettivo intento persecutorio, al fine di emarginare il lavoratore, specie se si tiene conto anche dell’assenza della natura mobbizzante degli altre tre comportamenti posti a fondamento della decisione del giudice di primo grado”.

  1. Per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso il lavoratore con tre motivi; ha resistito l’intimata società con controricorso.

All’esito della camera di consiglio, il collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni.

Ragioni della decisione

1.I motivi di ricorso possono essere come di seguito esposti.

1.1. Il primo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in rubrica denuncia: “Violazione ovvero falsa o comunque erronea applicazione dell’art. 2087 cod. civ., atteso che iI giudice d’appello, pur avendo ravvisato l’illiceità e nocività di condotte perpetrate da preposto azienda le nei riguardi del ricorrente odierno, ha escluso la responsabilità risarcitoria datoriale per la mancanza di configurazione di un disegno vessatorio intenzionale del datore di lavoro, senza vagliare la chiara responsabilità datoriale in ordine alla violazione degli obblighi di preservazione della condizione di salubrità e serenità delle condizioni di lavoro, a prescindere dalla sussistenza di un intento di vessazione sistematica”.

Nell’illustrazione del motivo si osserva che, “anche allorché non si ravvisi la configurazione di un intento persecutorio sistematico del datore di lavoro, questi incorre nella responsabilità per violazione degli obblighi di protezione sanciti dall’art. 2087 cod. civ. allorché non abbia dato luogo alla vigilanza e agli interventi utili ad evitare e a reprimere gli eventi e i comportamenti che abbiano determinato condizioni di aggravio psicologico, a carico del prestatore, della condizione di lavoro e dell’inserimento nell’ambiente lavorativo”; si rileva come la stessa sentenza d’appello riconosca, “con riguardo alle condotte di umiliante scherno patite dal ricorrente, che esse siano censurabili e addirittura suscettibili di rilevare in ambito disciplina re per il preposto azienda le che le aveva compiute” e che, inoltre, “l’utilizzazione del ricorrente, nonostante la sua condizione di patologia fisica incontroversa, per il sollevamento di carichi di documenti e per la raccolta degli stessi dal pavimento, nella sede della stanza di compensazione bancaria in cui si svolgeva la sua prestazione prevalente, fosse da ascriversi a <negligenza datoriale>”; si reputa invece irrilevante “il tentativo datoriale di giustificarsi adducendo la mancanza di conoscenza circa le consuete e deplorevoli modalità di svolgimento del lavoro presso le sedi di esecuzione delle prestazioni”, “incombendo invece sulla società datrice di lavoro l’obbligo, anche ai sensi e per i fini di cui all’art. 2087 cit., di vigilare circa le modalità e condizioni di svolgimento del lavoro”; si considera, infine, come “l’affermazione di responsabilità del datore di lavoro per l’omissione delle cautele di cui all’art. 2087 cod. civ. costituisca il nucleo minimo della domanda risarcitoria proposta, rispetto alla quale la sussistenza di un intento vessatorio sistematico si pone come elemento caratterizzante ulteriore, sicché l’eventuale esclusione di detto elemento impone comunque al giudice di vagliare la responsabilità risarcitoria del datore di lavoro, senza che il riconoscimento di detta responsabilità, scevra dall’intenzione di vessazione sistematica, debba costituire oggetto di una domanda distinta”.

1.2. Il secondo motivo, formulato “fermo restando il carattere assorbente” della censura precedente, denuncia: “Nullità della sentenza riveniente dalla violazione del giudicato interno formale e dal relativo effetto sostanzia le, in diversione rispetto agli art. 324 cod. proc. civ. e 2909 cod. civ., atteso che il giudice del gravame ha valutato come uniche condotte vessatorie quelle direttamente perpetrate dal preposto (…) senza considerare l’illegittimità, accertata con statuizione non impugnata, della valutazione negativa di professionalità attribuita al lavoratore, in ragione dell’assegnazione di mansioni completive senza l’apprestamento della dovuta istruzioni e preparazione’’.

1.3. Il terzo motivo, formulato ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., denuncia: “Violazione ovvero falsa o comunque erronea applicazione dell’art. 2103 cod. civ., in relazione all’art. 1375 cod. civ., atteso che il giudice d’appello ha ritenuto la legittimità dell’imposizione al lavoratore dello svolgimento di mansioni per un limitatissimo periodo temporale giornaliero in sede grandemente distante da quella di espleta mento delle mansioni prevalenti -oltre che dalla sua abitazione-, omettendo dunque di vagliare la necessaria conformità del potere organizzativo datoriale rispetto ai canoni di correttezza nella esecuzione e conduzione del rapporto”.

  1. Il primo motivo di ricorso è fondato nei sensi espressi dalla seguente motivazione.

2.1. Come noto, le nozioni di mobbing, così come quella di straining, hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici, venendo comunemente utilizzate per comodità di sintesi espressiva; nella sostanza servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (cfr. Cass. n. 33639 del 2022; in precedenza Cass. n. 3291 del 2016; Cass. n. 32257 del 2019).

In particolare, l’elemento qualificante della fattispecie ascrivibile alla nozione di mobbing va ricercato nel soggettivo intento persecutorio che avvince la pluralità delle condotte pregiudizievoli attuate nei confronti della vittima, a prescindere dalla legittimità o illegittimità dei singoli atti (cfr. Cass. n. 26684 del 2017; Cass. n. 16580 del 2022).

Anche laddove non si riscontri il carattere della continuità e della pluralità delle azioni vessatorie (Cass. n.18164 del 2018) o le stesse siano comunque limitate nel numero (Cass. n. 7844 del 2018) può comunque giustificarsi la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c. nel caso in cui si accerti che le condotte datoriali inadempienti risultino comunque produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore.

È l’ipotesi qualificata anche in giurisprudenza come straining: una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra la continuità delle azioni vessatorie, in quanto la condotta nociva può realizzarsi anche con una unica azione isolata o, comunque, con più azioni prive di continuità che determinino, con efficienza causale, una situazione di stress lavorativo causa di gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici (per tutte, v. Cass. n. 3291 del 2016; successivamente v. Cass. n. 2676 del 2021; Cass. n. 24339 del 2022; Cass. n. 3692 del 2023; Cass. n. 4664 del 2024).

In taluni arresti di questa Corte, si è evidenziato che, al di là delle denominazioni, lungo la falsa riga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute secondo il paradigma di cui all’art. 2087 c.c., è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute e ciò secondo le regole genera li sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.); si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (in termini, Cass. n. 15159 del 2019; Cass. 16580 del 2022).

2.2. La Corte territoriale, pur avendo escluso – con accertamento di fatto non sindacabile in questa sede l’esistenza del cd. mobbing lavorativo, in difetto di “un oggettivo intento persecutorio, al fine di emarginare il lavoratore”, tuttavia ha trascurato di considerare che ciò non è sufficiente ad escludere l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per i danni alla persona subiti dal lavoratore a causa di un inadempimento degli obblighi datoriali, anche a titolo di mera colpa.

Tanto più laddove la stessa Corte ha accertato che vi erano comportamenti della società che non tenevano in adeguata considerazione le condizioni di salute del lavoratore ed imputabili a “negligenza datoriale”, così come condotte, consumate in ambito lavorativo, “decisamente censurabili e […] disciplinarmente sanziona bili” di cui veniva fatto oggetto il (…).

Invero, va ribadito il consolidato principio secondo cui: “in caso di accertata insussistenza dell’ipotesi di mobbing in ambito lavorativo, il giudice del merito deve comunque accertare se, sulla base dei medesimi fatti allegati a sostegno della domanda, sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano possibili e necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, fermo restando che grava su quest’ultimo l’onere della prova della sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno, mentre grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie” (da ultimo Cass. n. 5061 del 2024; conf. a Cass. n. 33639 del 2022; n.3692 del 2023; Cass. n.4664 del 2024).

Dal punto di vista processuale, poi, non è dirimente che la parte attrice abbia qualificato l’azione proposta come volta a censurare condotte qualifica te come mobbing, poiché si è più volte ritenuto che ciò non può considerarsi preclusivo per una valutazione del giudice in termini di accerta mento della violazione dell’art. 2087 c.c., non sussistendo alcuna novità della questione, trattandosi soltanto di adopera re differenti qualificazioni di tipo medico-legale (in tali sensi Cass. n. 3291 del 2016; Cass. n. 7844 del 2018; Cass. n. 18164 del 2018).

2.3. L’accoglimento del primo motivo di ricorso determina l’assorbimento dei successivi, in quanto il giudice del rinvio, ferma l’esclusione del cd. mobbing, dovrà procedere a rinnovato esame della controversia alla luce dei principii innanzi richiamati.

  1. Conclusivamente, deve essere accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento degli altri e cassazione della sentenza impugnata, in relazione alle censure ritenute fondate; il giudice del rinvio indicato in dispositivo si uniformerà a quanto statuito, provvedendo anche alle spese del giudizio di legittimità.

Va disposta, per l’ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del d.lgs. n. 196/2003 della parte ricorrente.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese.

Nota a Cass. (ord.) 16 ottobre 2025, n. 27685