Condotta aggressiva del lavoratore e licenziamento

La condotta del lavoratore, consistente in scoppio di ira, urla, bestemmie, calci agli scatoloni dei flaconi appena prodotti, non integra un inadempimento così grave da essere qualificabile come giusta causa di licenziamento, laddove non sia provato il danno alla produzione o ai macchinari, né che il dipendente avesse realizzato aggressioni fisiche o verbali ai colleghi e al superiore, o mancato rispetto a quest’ultimo, oltre alla provata cessazione della condotta.

È quanto afferma la Corte di Cassazione (ord. 30 giugno 2025, n. 17548) in linea con la corte di merito (App. Venezia n. 208/2024), osservando quanto segue.

È vero che, in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, co. 4 e 5, come novellato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, “è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali ed elastiche”.

Nondimeno, questa operazione di interpretazione e sussunzione “non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del giudizio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo” (v. Cass. n. 10435/2023; Cass. n. 11665/2022, in q. sito con nota di A. TAGLIAMONTE; Cass. n. 13065/2022 e Cass. n. 13774/2022, annotata in q. sito da F. ALBINIANO).

Ed infatti, come chiarito da Cass. n. 7827/2025, la Corte costituzionale (sentenza n. 128/2024), intervenuta sulla disciplina dettata dal D.LGS. n. 23/2015, ha sottolineato che “la previsione a opera della contrattazione collettiva di sanzioni solo conservative implica la preclusione della sanzione espulsiva, qual è il licenziamento” ed ha evidenziato la contrarietà all’art. 39 Cost. di una legge che “si sovrapponesse (alla) valutazione circa la sproporzione del licenziamento” come effettuata dalle parti sociali perché “comprimerebbe ingiustificatamente l’autonomia collettiva” e il ruolo essenziale alla stessa riconosciuta nella disciplina del rapporto di lavoro.

Sulla base di tali premesse, nel campo degli illeciti disciplinari dei lavoratori discende che la scala valoriale concordata dalle parti sociali (per quanto riguarda la fattispecie in questione nella parte in cui il ccnl descrive condotte suscettibili di sanzione conservativa) “costituisce un indispensabile testo che il giudice deve interpretare ed analizzare sul serio, in modo dettagliato e approfondito, allo scopo di ricostruire la graduazione operata dall’autonomia collettiva cui corrisponde il potere sanzionatorio attribuito al datore di lavoro”.

Quanto detto, concludono i giudici, impedisce di ascrivere il comportamento del lavoratore alle fattispecie per le quali le parti collettive hanno previsto il recesso immediato e, a conferma dell’assenza di una condotta così grave da impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, può essere valorizzata la proposta di riassunzione intervenuta pochi giorni dopo il recesso da parte della società.

Sentenza

CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 30 giugno 2025, n. 17548

Licenziamento disciplinare – Giusta causa – Contestazione disciplinare – Condotta contestata – Aliunde perceptum – Prova di danno – Anzianità di servizio – Proposta di riassunzione – Reintegrazione – Violazione degli obblighi di fedeltà e correttezza – Giudizio di proporzionalità – Rigetto

Rilevato che

1.Con sentenza n. 594/23 il Tribunale di Vicenza, a conferma dell’ordinanza, emessa nella fase sommaria, di annullamento del licenziamento disciplinare intimato dalla società I. s.r.l. in danno del dipendente D.M.G. e conseguente reintegra nel posto di lavoro, rigettava l’opposizione proposta dalla società pur modificando in senso più favorevole il criterio di calcolo delle 12 mensilità previste dall’art. 18 co. 4 legge n. 300/70 in ragione dell’aliunde perceptum.

Rilevava il Tribunale che la condotta contestata con la lettera del 4.02.22 – consistente nel fatto che:”..in un evidente accesso di ira sbraitava, bestemmiando, contro i colleghi, prendendosela anche con gli oggetti circostanti, dando calci ai flaconi appena prodotti” – non integrava un inadempimento così grave da essere qualificabile come giusta causa, in ragione di quanto da ultimo addebitato con la lettera di licenziamento e all’esito dell’istruttoria orale.

Secondo il tribunale la società non aveva provato il danno alla produzione o ai macchinari, né che il dipendente avesse realizzato aggressioni fisiche o verbali ai colleghi e al superiore S.

Pertanto, anche alla luce dell’anzianità di servizio, della proposta conciliativa di riassunzione e delle previsioni del contratto collettivo, confermava l’annullamento del recesso e il comando di reintegrazione disposto dal primo giudice.

Revocava l’ordinanza sommaria sotto il profilo del quantum rilevando che, a fronte degli importi ricevuti dall’ex dipendente da altra occupazione reperita nel periodo intercorrente tra il recesso e l’esercizio della opzione, quanto dovuto dalla società era pari ad euro 14.971,15 come da conteggi elaborati dall’opposto.

2. Con sentenza n. 208/2024 del 2 aprile 2024 la Corte d’appello di Venezia rigettava il reclamo proposto dalla società, confermando la sentenza impugnata.

La Corte d’appello, in particolare, rilevava che, anche alla luce del tenore della lettera di licenziamento, l’addebito “consisteva quindi nella condotta tenuta dal lavoratore nell’ambiente di lavoro e in particolare il mancato rispetto dei colleghi, oltre che il notevole danno provocato alla Società che- per quanto riportato testualmente nella lettera di licenziamento- si era vista costretta “a sopportare i costi derivanti dai fermi delle linee produttive”.

Ciò posto, riteneva corretta l’interpretazione di tali atti offerta dal giudice di primo grado secondo il quale al lavoratore non era stato contestato di aver insultato il responsabile occorso sul posto, né di aver inveito in modo particolare nei confronti di qualche collega o rappresentante aziendale; né era stata contestata l’insubordinazione.

La Corte, dunque, riteneva che la condotta contestata, pur sussistente (scoppio di ira, urla, bestemmie, prendere a calci scatoloni),  “in assenza di prova di danno ai prodotti e alle linee produttive, di mancata prova di turbamento ed allarme in capo ai colleghi, di mancata prova della aggressione fisica dei colleghi o di mancato rispetto del superiore, oltre alla provata cessazione della condotta a seguito dell’intervento” del responsabile, non potesse essere ricondotta alle fattispecie per le quali le parti collettive hanno previsto il recesso immediato ex art. 61 del CCNL, bensì alla violazione individuata dal primo giudice di cui all’art. 60 lett. h) “la trasgressione alle norme del contratto, regolamenti interni o commissione di mancanze che recano pregiudizio alla disciplina, morale o igiene”, sanzionata nelle ipotesi più lievi con la multa e in quelle più gravi con la sospensione.

A conferma dell’assenza di una condotta così grave da impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, sul piano della prognosi realizzata dal datore di lavoro rispetto alle future condotte del D.M., la Corte d’appello valorizzava anche la proposta di riassunzione intervenuta pochi giorni dopo il recesso da parte della società.

La Corte d’appello, dunque, riteneva corretta l’applicazione della tutela di cui al quarto comma dell’art. 18 della legge 300/70.

In relazione al quantum della condanna riteneva corretto l’importo della retribuzione globale di fatto spettante al lavoratore, di euro 2.068,20, accertata dal Giudice di primo grado e il criterio adottato dal giudice per quantificare il dovuto, detratto l’aliunde perceptum, fino all’esercizio dell’opzione, dovendo, invece, escludersi dalla detrazione gli importi percepiti dal ricorrente dopo l’esercizio dell’opzione.

3. Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione la I. s.r.l. affidato a due motivi.

4. Il D.M. è rimasto intimato.

Considerato che

1.Con il primo motivo di ricorso la I. s.r.l. lamenta, ex art. 360 co. 1 n. 3, c.p.c. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., degli artt. 1175, 1375, 2104 e 2105 c.c., nonché dell’art. 2375 c.c. per non aver la Corte territoriale ritenuto “sussumibile la giusta causa di licenziamento nel fatto storico altresì cristallizzato nella lettera di contestazione disciplinare” senza considerare che la condotta del lavoratore che – in un reparto industriale con macchinari pericolosi in costante movimento con conseguenti possibili gravi rischi per l’incolumità dei dipendenti in caso di rissa – perde gravemente il controllo di sé stesso sul posto di lavoro, sbraitando e bestemmiando contro i colleghi e l’azienda; tiri calci ai beni aziendali (nel caso di specie, flaconi appena prodotti); seguiti in tale comportamento anche dinanzi al proprio responsabile e superiore gerarchico, sig. S., offendendolo, non era compatibile con obblighi tipici e caratterizzanti un rapporto di lavoro, di correttezza (articolo 1175 c.c.), fedeltà, lealtà, buona fede (articolo 1375 c.c.).

Censura altresì la sentenza per aver omesso di riconoscere portata confessoria alle dichiarazioni rese dal lavoratore in sede di giustificazioni scritte, con cui ha ammesso:

a) di esser stato lui ad inveire e urlare “contro tutto e tutti” e quindi contro i colleghi e l’azienda, cui ha rivolto parole gergali;

b) di aver tirato calci ai flaconi appena prodotti;

c) di aver seguitato in tale comportamento anche nei confronti del superiore gerarchico.

2. Con il secondo motivo di ricorso la I. s.r.l. censura la sentenza, ex art. 360 co. 1 n. 3, c.p.c. per falsa applicazione degli artt. 55, 58, 60 e 61 del ccnl gomma plastica piccola e media industria nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 18 st. lav., 4° e 5° co. e degli artt. 1362, 1363 e 1365 c.c. per aver disposto in favore del D.M. le tutele di cui al 4° comma dell’art. 18 st. lav., in violazione della norma medesima e di quelle proprie dell’interpretazione dei contratti collettivi ex artt. 1362 e 1363 c.c. stante, da un lato, la pacifica sussistenza del fatto materiale e, dall’altro, la non riconducibilità dei fatti contestati alla previsione dell’art. 60, co. 1, lett. h) del CCNL relativo a “mancanze recanti pregiudizio alla disciplina, alla morale o all’igiene”, trattandosi, invece, di “gravi infrazioni alla disciplina e alla diligenza nel lavoro”, così come contemplato dall’art. 60, 1° e 2° co. lett. n) del CCNL.

3. Il primo motivo è inammissibile in quanto mira a contestare il giudizio di proporzionalità e a criticare l’apprezzamento della gravità della condotta tenuta in concreto dal lavoratore, che, secondo la società ricorrente, configurerebbe una violazione degli obblighi di fedeltà, correttezza e buona fede integrante giusta causa di recesso. In tal modo la ricorrente finisce per sollecitare un sindacato che esonda dai confini del giudizio di legittimità perché spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa (sui limiti del sindacato di legittimità nelle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento si rinvia, ai sensi dell’art. 118, co. 1, disp. att. c.p.c., a Cass. n. 13064 del 2022 ed alla giurisprudenza ivi citata; conf. v. Cass. n. 20780 del 2022).

3.1. Secondo un risalente e costante insegnamento, infatti, il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003).

La valutazione in ordine alla suddetta proporzionalità, implicante inevitabilmente un apprezzamento dei fatti storici che hanno dato origine alla controversia, è ora sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione della sentenza impugnata sul punto manchi del tutto, ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro inconciliabili, oppure perplessi ovvero manifestamente ed obiettivamente incomprensibili (in termini v. Cass. n. 14811 del 2020).

Tale pronuncia ribadisce, poi, che in caso di contestazione circa la valutazione sulla proporzionalità della condotta addebitata – frutto di selezione e di valutazione di una pluralità di elementi – la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non solo non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi o un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma con la nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., deve denunciare l’omesso esame di un fatto avente, ai fini del giudizio di proporzionalità, valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 20817 del 2016).

3.2. Osserva in proposito il Collegio che la Corte territoriale ha tenuto ben presente le caratteristiche della condotta contestata al D.M. e, con articolata e coerente motivazione, ha concluso nel senso della non proporzionalità della sanzione espulsiva tenendo conto dell’“assenza di prova di danno ai prodotti e alle linee produttive, di mancata prova di turbamento ed allarme in capo ai colleghi, di mancata prova della aggressione fisica dei colleghi o di mancato rispetto del superiore, oltre alla provata cessazione della condotta a seguito dell’intervento”, nonché, sul piano della prognosi rispetto a future condotte del D.M., della proposta di riassunzione intervenuta pochi giorni dopo il recesso da parte della società.

3.3. Per quanto attiene alla lamentata violazione dell’art. 2735 c.c. va rilevato che nel giudizio di cassazione non è consentito sindacare l’accertamento della natura confessoria delle dichiarazioni delle parti compiuto dal giudice di merito, non essendo soggetto a vaglio di legittimità il prodotto della sua attività interpretativa, se non nei limiti in cui è contestabile il vizio di motivazione (cfr. Cass. n. 2048/2019, Rv. 652350-01; Cass. n. 3698/2020, Rv. 657253 – 01).

4. Il secondo motivo di ricorso è in parte infondato e in parte inammissibile.

4.1. Occorre premettere che la Corte territoriale, riguardo alle tutele applicabili, ha fatto riferimento alla giurisprudenza di legittimità secondo la quale, E’ VERO CHE in tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dalla l. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, commi 4 e 5, come novellato dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali ed elastiche.

NONDIMENO, Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando nei limiti dell’attuazione del giudizio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo (Cass. n. 11665 del 2022; nello stesso senso, all’esito della medesima udienza pubblica: Cass. n. 13063 del 2022; Cass. n. 13065 del 2022; Cass. n. 13774 del 2022; Cass. n. 20682 del 2022; tra le successive conf. v. Cass. n. 20780 del 2022 e Cass. n. 10435/2023).

4.2. Come da questa Corte recentemente rilevato (Cass. sez. lav. n. 7827/2025), inoltre, la Corte costituzionale, con la recente sentenza n. 128 del 2024 intervenuta sulla disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015, ha rimarcato che “la previsione a opera della contrattazione collettiva di sanzioni solo conservative implica la preclusione della sanzione espulsiva, qual è il licenziamento” ed ha evidenziato la contrarietà all’art. 39 Cost. di una legge che “si sovrapponesse (alla) valutazione circa la sproporzione del licenziamento” come effettuata dalle parti sociali perché “comprimerebbe ingiustificatamente l’autonomia collettiva” e il ruolo essenziale alla stessa riconosciuta nella disciplina del rapporto di lavoro.

NEL CAMPO DEGLI ILLECITI DISCIPLINARI DEI LAVORATORI “Da tali premesse discende che la scala valoriale concordata dalle parti sociali e, per quanto RIGUARDA LA FATTISPECIE IN QUESTIONE,  nella parte in cui descrive condotte suscettibili di sanzione conservativa, costituisce un indispensabile testo che il giudice deve interpretare ed analizzare sul serio, in modo dettagliato e approfondito, allo scopo di ricostruire la graduazione operata dall’autonomia collettiva nel campo degli illeciti disciplinari dei lavoratori, cui corrisponde il potere sanzionatorio attribuito al datore di lavoro.

Dell’analisi svolta e della graduazione ricostruita il giudice deve dare puntuale motivazione, al fine di consentire la verifica del rispetto del contratto collettivo, espressione della autonomia collettiva costituzionalmente tutelata”.

4.3. Nel caso in esame, la Corte d’appello, una volta esclusa la proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla concreta gravità della condotta, esauritasi in un “episodio di perdita di controllo conseguente allo stress dell’ambiente di lavoro”, ha esaminato approfonditamente le previsioni contrattuali sulle fattispecie punite con sanzioni conservative esplicitando le ragioni per cui la condotta contestata al dipendente fosse riconducibile alle previsioni contrattuali volte, proprio attraverso l’impiego di formule generali ed elastiche, ad includere condotte costruite attorno alla violazione di generiche e residuali previsioni comportamentali.

4.4. In particolare la Corte d’appello ha ritenuto che “la condotta pur sussistente (scoppio di ira, urla, bestemmie, prendere a calci scatoloni), in assenza di prova di danno ai prodotti e alle linee produttive, di mancata prova di turbamento ed allarme in capo ai colleghi (come esposto in precedenza l’altro operaio aveva le cuffie e nulla ha sentito anche a causa del rumore della linea produttiva), di mancata prova della aggressione fisica dei colleghi o di mancato rispetto del superiore (il quale ha riferito di non ricordare né minacce né insulti né aggressione), oltre alla provata cessazione della condotta a seguito dell’intervento del S., impedisce di ascrivere il comportamento del D.M. alle fattispecie per le quali le parti collettive hanno previsto il recesso immediato ex art. 61 cit.

Trattasi di condotta ascrivibile alla violazione individuata dal primo giudice di cui all’art. 60 lett. h) citato; né rileva la precedente contestazione che riguardava una condotta diversa sanzionata soltanto con il rimprovero scritto.

A conferma dell’assenza di una condotta così grave da impedire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, sul piano della prognosi realizzata dal datore di lavoro rispetto alle future condotte del D.M., può essere valorizzata la proposta di riassunzione intervenuta pochi giorni dopo il recesso da parte della società”.

4.5. Ciò posto, non si ravvisa la dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 18 co. 4, L. n. 300/1970, né delle disposizioni contrattual-collettive sopra citate, essendosi la decisione d’appello attenuta ai principi sopra esposti, considerato altresì che, stante l’accertata insussistenza di “danno ai prodotti e alle linee produttive”, la previsione di cui alle lett. f e g dell’art. 61 del CCNL, è inapplicabile al caso di specie.

5. Il motivo è, poi, inammissibile nella parte in cui lamenta un vizio interpretativo che non viene in alcun modo sviluppato nella parte argomentativa con la specifica indicazione del modo in cui il ragionamento del giudice si sia discostato dai canoni interpretativi meramente richiamati, così risolvendosi in una censura attinente al merito, come tale inammissibile in sede di legittimità.

6. Il ricorso, in conclusione, va rigettato.

7. Nulla per le spese essendo l’altra parte rimasta intimata.

8. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13. (ndrdel comma 1-bis dello stesso art. 13.).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Nulla per le spese.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13 (ndr del comma 1-bis dello stesso art. 13).

Nota a Cass. ord. 30 giugno 2025, n. 17548