L’attività compiuta in costanza di malattia è consentita solo se, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, non è tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore.
Sentenza
Svolgimento del processo
1.la Corte di Appello di Napoli, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato il 7 agosto 2016 a A.A. dalla ENAM Spa, applicando la tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 S.d.L.;
2. la Corte – in estrema sintesi – ha considerato, rispetto alla contestazione disciplinare con la quale la datrice di lavoro aveva addebitato “l’utilizzo improprio delle assenze per malattia”, che “le attività accertate dall’agenzia investigativa non costituiscono di per se stesse condotte incompatibili con lo stato di malattia o tali da averlo protratto, così ritardando la ripresa del lavoro”; ne ha tratto il convincimento che “il fatto così come ascritto” dovesse “intendersi come non sussistente”, perché, “seppure avvenuto nella sua materialità”, risultava “manchevole sul piano della antigiuridicità oggettiva e/o soggettiva”;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società con sei motivi; ha resistito con controricorso l’intimato;
entrambe le parti hanno comunicato memorie;
all’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni;
Motivi della decisione
1.i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati;
1.1. col primo si denuncia l’omesso esame di fatti decisivi “ai fini della valutazione dell’antigiuridicità della condotta contestata”, lamentando che la Corte di Appello avrebbe “completamente omesso di esaminare, nel suo complesso, gli aspetti concreti della vicenda sottoposta alla sua attenzione, trascurando di valutare circostanze di fatto puntualmente dedotte dalle parti nei propri scritti difensivi e mai contestate che, se prese in considerazione, avrebbero senz’altro condotto ad una diversa determinazione in ordine alta violazione dei principi di correttezza e buona fede da parte del A.A.”;
1.2. con il secondo motivo ancora si denuncia il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. , lamentando che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare i “fatti contestati nei precedenti disciplinari”;
1.3. il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2110 c.c. e 2697 c.c. , “in relazione alla corretta ripartizione dell’onere probatorio in ordine alla prova della compatibilità delle attività extralavorative svolte con lo stato patologico lamentato”; si sostiene che tale onere graverebbe sul lavoratore;
1.4. col quarto mezzo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2104, 2015, 2106 e 2119 c.c. , 18 l. n. 300 del 1970, 3. L. n. 604 del 1966, “per avere l’errata ricostruzione in fatto della fattispecie in esame – determinata dall’omesso esame di parametri decisivi (ai fini della valutazione dell’antigiuridicità del fatto, sotto il profilo degli obblighi di correttezza e buona fede) come illustrati nei precedenti motivi – comportato un errore di sussunzione della vicenda stessa nell’alveo dell’art. 2119 c.c.”;
1.5. il quinto motivo lamenta l’applicazione, operata dalla Corte territoriale, della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 novellato;
1.6. col sesto mezzo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2104, 2015, 2106 e 2119 c.c., 18 l. n. 300 del 1970, 3. L. n. 604 del 1966, “imputando alla Corte territoriale di aver proceduto alla sola valutazione atomistica della recidiva in senso tecnico, ex art. 68 CCNL Federambiente, e degli episodi ultimi fatto oggetto di contestazione”;
2. il ricorso non può trovare accoglimento;
2.1. non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare altra attività, anche a favore di terzi, in costanza di assenza per malattia, sicché ciò non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera (ab imo, Cass. n. 2244 del 1976, con un postulato mai smentito dalla giurisprudenza successiva; tra molte: Cass. n. 1361 del 1981; Cass. n. 2585 del 1987; Cass. n. 381 del 1988; Cass. n. 5833 del 1994; Cass. n. 15621 del 2001; più di recente, v. Cass. n. 6047 del 2018, la quale osserva che il lavoratore assente per malattia “non per questo deve astenersi da ogni altra attività, quale in ipotesi un’attività ludica o di intrattenimento, anche espressione dei diritti della persona”); l’assunto trova fondamento nella nozione di malattia rilevante a fini di sospensione della prestazione lavorativa e che ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità abbia determinato, per intrinseca gravità e/o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale – sebbene transitoria -incapacità al lavoro del medesimo (cfr. , tra tutte, Cass. n. 14065 del 1999), per cui, anche là dove la malattia comprometta la possibilità di svolgere quella determinata attività oggetto del rapporto di lavoro, può comunque accadere che le residue capacità psico – fisiche possano consentire al lavoratore altre e diverse attività;
tuttavia, la stessa giurisprudenza prima citata ha, da subito, precisato che il compimento di altre attività da parte del dipendente assente per malattia non è circostanza disciplinarmente irrilevante ma può anche giustificare la sanzione del licenziamento, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifichi obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, sia nell’ipotesi in cui la diversa attività accertata sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, sia quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore (tra molte: Cass. n. 1747 del 1991; Cass. n. 9474 del 2009; Cass. n. 21253 del 2012; Cass. n. 17625 del 2014; Cass. , n. 24812 del 2016; Cass. n. 21667 del 2017; Cass. n. 13980 del 2020);
è, inoltre, incontrastata da lungo tempo la constatazione che l’accertamento in ordine alla sussistenza o meno dell’inadempienza idonea a legittimare il licenziamento, sia essa la fraudolenta simulazione della malattia ovvero l’idoneità della diversa attività contestata a pregiudicare il recupero delle normali energie psico fisiche, si risolve in un giudizio di fatto, che dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, come tale riservato al giudice del merito, con i consueti limiti di sindacato in sede di legittimità (ad ex. , Cass. n. 3142 del 1983; Cass. n. 2585 del 1987; più di recente, ex multis, Cass. n. 17625 del 2014; Cass. n. 21667 del 2017).
2.2. tanto premesso, i primi due motivi, che tendono ad una diversa ricostruzione dei fatti, sono inammissibili in quanto evocano il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. al di fuori dei limiti imposti dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014, in particolare senza individuare l’omesso esame, da parte della Corte territoriale, di fatti storici decisivi, quanto piuttosto proponendo una diversa valutazione dei medesimi;
una volta che il giudice del merito ha ritenuto l’irrilevanza disciplinare dei fatti contestati, perché l’attività compiuta in costanza di malattia, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, non era tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, discende coerentemente l’inammissibilità del quarto e del sesto motivo di ricorso, che, denunciando errori di diritto a mente del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., presupporrebbero una ricostruzione della fattispecie concreta incontestata e non, come nel caso, una diversa valutazione degli accadimenti;
il terzo motivo è, invece, infondato alla stregua del principio, qui ribadito, secondo cui: “In materia di licenziamento disciplinare intimato per lo svolgimento di altra attività, lavorativa o extralavorativa, durante l’assenza per malattia del dipendente, grava sul datore di lavoro la prova che la malattia in questione sia simulata ovvero che la predetta attività sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente medesimo, atteso che l’art. 5 della l. n. 604 del 1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere della prova di tutti gli elementi di fatto che integrano la fattispecie che giustifica il licenziamento e, dunque, di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, idonee a connotare l’illecito disciplinare contestato” (Cass. n. 13063 del 2022, cui si rinvia per ogni ulteriore aspetto sulla questione);
infondato è, infine, anche il quinto motivo, atteso che per pacifica giurisprudenza di questa Corte l’insussistenza del fatto contestato comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità o rilevanza giuridica, e quindi il fatto sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo disciplinare (in origine: Cass. n. 20540 e 20545 del 2015; successivamente, tra molte, v. Cass. n. 10019 del 2016; Cass n. 18418 del 2016; Cass. n. 13383 del 2017 in caso analogo: Cass. n. 3655 del 2019);
3. pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese regolate secondo soccombenza come da dispositivo, con attribuzione all’Avv. Arcangelo Zampella che si è dichiarato antistatario;
occorre, altresì, dare atto della sussistenza per il ricorrente dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012, per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, ove dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettario al 15% e accessori secondo legge, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1, quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
CORTE DI CASSAZIONE, ordinanza 6 maggio 2024, n. 12152